Quali sono stati gli influssi esterni determinanti per il suo modo di comporre?
Schumann e Ligeti hanno lasciato una forte impronta nel mio stile e nel mio modo di vedere la musica. Per quanto riguarda i miei studi, le figure importanti per la mia formazione musicale sono state la Ravinale e Petrassi. Con la Ravinale ho fatto i miei studi al Conservatorio di Santa Cecilia e con Petrassi il corso di perfezionamento all’Accademia. Al contrario di tanti altri allievi non ho sentito il passaggio traumatico dagli studi al perfezionamento, perché la Ravinale veniva dalla scuola di Petrassi. Il discorso che riguarda i miei studi si è concluso con i loro insegnamenti, perché non ho più sentito il bisogno di stare a contatto con altri maestri. Sono stati due insegnanti importanti perché mi hanno reso autonoma, anche se poi ovviamente ho dovuto cercare da sola la mia strada. Successivamente sono andata alla ricerca di nuovo materiale analizzando tutte le partiture del repertorio contemporaneo che mi capitavano sotto mano.
Lei ha curato un ciclo di programmi radiofonici sulle tecniche strumentali del Novecento. Di cosa si trattava?
La mia intenzione è stata quella di fare ascoltare al pubblico le possibilità che hanno alcuni strumenti in particolare, come il sassofono o la voce. Durante la trasmissione era sempre presente un esecutore che faceva ascoltare al pubblico le varie possibilità del suo strumento; ne è venuta fuori una trasmissione molto interessante. Ha suscitato un interesse notevole in chi non conosceva nulla di tutto ciò, e quindi poteva venire a contatto con i nuovi tipi di suono, ma anche nei compositori o negli addetti ai lavori, che hanno potuto approfondire il loro linguaggio con eventuali tecniche che magari non conoscevano.
In che modo affronta le nuove tecniche?
Collaborando con i miei colleghi; non ho bisogno di molto tempo, spesso mi bastano anche dieci minuti, nei quali l’esecutore deve soddisfare tutte le mie curiosità a riguardo. Ho in testa molto chiaramente certi tipi di suoni che nella mia musica sono evidenti.
Come nascono queste collaborazioni?
Si tratta quasi sempre di una serie di commissioni che mi vengono richieste. All’inizio della mia carriera non avrei mai pensato di scrivere, per esempio, per chitarra, per flauto o per sassofono, strumento per il quale ho composto un pezzo che sta ottenendo un grande successo in tutto il mondo. Quando mi sono state richieste delle composizioni per questi strumenti, in un certo senso ho sfidato le mie capacità, mi sono quasi obbligata a scrivere. Mi piace sempre scrivere per l’esecutore, conoscere le sue preferenze, i suoi gusti, le sue possibilità. Il contatto con chi esegue le mie composizioni è fondamentale per il mio modo di scrivere. Anche con Pierre-Yves Artaud si è trattato di una commissione; ho pensato al suo modo di suonare e alla sua agilità, ed è nato Pour Pierre-Yves per flauto solo.
Comunque, anche se può apparire molto strano, tutto quello che scrivo nasce sempre da richieste esterne, dal contatto con i musicisti, senza il quale non riesco a comporre. Questo spesso mi crea dei problemi, soprattutto quando mi richiedono alcuni pezzi che non ho perché non mi sono mai stati richiesti. Ho sempre bisogno di una sollecitazione che viene dall’esterno. Con Misty, un pezzo per flauto e corno, è accaduto lo stesso; la collaborazione con un grande strumentista come Ceccarossi è stata veramente stimolante: aveva un suono elegante e una tecnica straordinaria. Forse se fosse stato un altro cornista non me la sarei sentita. Il mio grande amore comunque rimane il pianoforte, uno strumento che mi spaventa moltissimo perché lo conosco bene. Sono nata sul pianoforte e da buona pianista ho scritto solo due pezzi per questo strumento. Mi piacerebbe molto comporre un pezzo per pianoforte e orchestra ma so che non lo farò mai, mentre forse mi capiterà di scrivere per sassofono o per violino e orchestra, perché la possibilità di scrivere per strumenti che conosco meno mi sollecita di più la fantasia.
Perché ha abbandonato lo studio del pianoforte?
In me c’è sempre stato un forte dualismo tra il pianoforte e la composizione. Il pianoforte è stata sempre una grande passione (a casa ho due pianoforti a coda). Non so spiegare bene perché mi sono allontanata dal pianoforte, ma ad un certo punto dei miei studi la composizione ha preso il sopravvento. Con il pianoforte comunque ho avuto sempre una grande facilità, agilità, anche dopo lunghi periodi trascorsi senza studiare. Il dualismo continua a esistere e spesso mi capita di desiderare di avere un anno a disposizione per dedicarmi solo al pianoforte; ho anche qualche rimpianto per non avere fatto la carriera di pianista. Ma ad un certo punto della mia vita ho dovuto scegliere, anche perché sono convinta che non si possano portare avanti le due attività insieme e allo stesso livello. Entrambe occupano totalmente l’attenzione, togliendo tutte le energie che si hanno. Non si può dividere la propria vita in compartimenti stagni dedicando due ore al pianoforte e altre due alla composizione; se si suona o si compone non si può guardare l’orologio…
Come nasce una sua composizione?
Sempre dal contatto diretto con l’esecutore e con l’acquisizione delle tecniche particolari che mi interessano e del materiale che poi ho a disposizione. Tutta la gestazione delle mie composizioni avviene nella mia testa: non scriverei mai al pianoforte un pezzo destinato a un altro strumento; bisogna conoscere molto bene lo strumento per il quale si compone. Tutto quello che mi serve lo cerco dentro di me, elaborando il materiale; le mie partiture nascono intere, senza schizzi né abbozzi, non ho mai fatto per esempio delle correzioni o brutte copie. Ovviamente prima di scrivere una nota passano anche dei mesi, durante i quali ascolto, prendo appunti su una agenda. Quando il mio pezzo è ben costruito e la forma è ben definita mentalmente inizio a scrivere, e già dalla prima nota è tutto ben chiaro e definito. Raramente è accaduto che la nota iniziale non fosse esatta: quando è successo ho avuto dei problemi. Quando inizio a scrivere è già tutto accaduto; naturalmente una pagina mi costa una fatica immensa, anche perché so che è quella definitiva. Devo sentire mia la composizione, riconoscere la mia calligrafia, la mia matita e la mia gomma: non riuscirei mai a scrivere sul computer. Dalla grafia si capiscono tanti particolari che non emergono dalla stampa; forse per questo ultimamente si pubblicano i manoscritti, anche se spesso sono poco chiari.
Le sue composizioni sono spesso eseguite all’estero. Che differenze trova con il pubblico italiano?
Per me è molto importante avere un riconoscimento all’estero. Il pubblico straniero è più educato alla musica e molto più competente rispetto a quello italiano. All’estero trovo una maggiore serietà e un grande rispetto per i compositori. Il pubblico è attento e interessato ai concerti che va ad ascoltare, ed è contento di pagare per la cultura.
Durante la scorsa edizione del Festival Pontino c’è stato un dibattito sul ruolo delle donne nel panorama della musica contemporanea. Cosa pensa a riguardo?
Io non ho partecipato all’incontro, comunque devo dire che in Italia sono iniziative poco amate, mentre all’estero sono molto frequenti; festival e convegni sulle donne che compongono sono appuntamenti abituali, mentre qui è un fatto eccezionale: l’ultimo incontro in Italia risale agli anni Ottanta. All’estero è diverso, è un vero e proprio evento culturale di grande importanza. Ogni partecipante dà il suo contributo per informare gli altri su quello che accade nel panorama musicale femminile. Vado un po’ controvoglia a questi incontri: non amo molto parlare delle donne che compongono, perché mi sembra di isolare il fenomeno, di ghettizzarlo, ma mi devo sempre ricredere, perché trovo sempre un grande livello culturale.
Crede che una donna possa comporre in modo differente da un uomo?
C’è chi afferma che la mia musica sia femminile, ma non saprei dire se questo sia vero o meno. Anche della musica di Chopin dicono che sia femminile… Per me la musica è musica, non ci sono differenze né dal punto di vista della composizione né da quello dell’esecuzione; non si può dire che una donna suoni diversamente da un uomo. La musica è senza sesso. E’ una questione di stato d’animo. Comunque non mi sono mai posta il problema di essere una donna che compone, ora non ci sono i problemi che c’erano all’inizio del secolo; alla Giuranna, per esempio non fu assegnato un premio perché quando seppero che era una donna lo annullarono. Adesso, per esempio, si rimane un po’ perplessi di fronte ad una donna che dirige una orchestra, mentre è solo una questione di abitudine; all’estero è già più normale.
Qual è il suo rapporto con il teatro?
Non riesco a scrivere facilmente per il teatro, perché lo trovo molto faticoso. Il grande problema per me è trovare un testo che si adatti alla mia musica. Spesso infatti ho composto per voce ma senza parole, come se fosse uno strumento.
Ci parli della sua esperienza alla Biennale di Monaco.
Per la Biennale di Monaco ho lavorato ad una ricostruzione di La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina, una partitura di Francesca Caccini. Nell’originale c’era solo la melodia e il basso continuo; io ho conservato la linea vocale, aggiungendo suoni moderni e intervenendo un po’ su tutto il materiale, realizzando un’opera senza soluzione di continuità. E’ stato un lavoro di costruzione e ricostruzione molto affascinante, soprattutto grazie al connubio dell’antico con un complesso “moderno” (flauto in sol, ottavino, oboe d’amore, clarinetti, sassofoni, percussioni, celesta, chitarra, viola d’amore e archi). La melodia che è venuta fuori era molto elaborata. Proprio in questi giorni ne ho estratto una suite. In alcune pagine si sente proprio la mia atmosfera, i suoni che uso di solito. La messa in scena è stato un po’ un problema perché era lontana dal mio linguaggio, era troppo esagerata, ha tagliato la mia partitura… Comunque ha avuto molto successo.
Quali pensa che siano i criteri migliori per proporre al pubblico il repertorio contemporaneo?
Penso che il repertorio contemporaneo vada inserito nell’ambito di concerti ma solo a piccole dosi e soprattutto con esecutori eccellenti; in questo modo diventa anche di facile fruizione. Tutte le istituzioni dovrebbero dedicare sempre cinque o sei minuti alla musica di oggi. Sono contraria al concerto monografico o al pezzo eccessivamente lungo. Il pubblico va educato, così come si insegna a parlare ai bambini. Comunque sono proprio i direttori artistici ad avere paura di una programmazione del genere. Spesso la musica contemporanea viene inserita nei cartelloni per esigenze commerciali e non culturali; è difficile vedere un programma che presenta un discorso intelligente e articolato sulla musica contemporanea.
Lei è anche direttore artistico di varie associazioni; come affronta questa attività?
Il discorso sulla musica contemporanea è molto interessante, anche se è molto difficile e pesante, soprattutto oggi. Adesso mi sembra che non si guardi più alle capacità artistiche di un individuo, ma al suo colore politico. Il problema è che il direttore artistico dovrebbe essere essenzialmente un musicista, cosa che ultimamente non avviene spesso. Ci dovrebbe essere una netta separazione tra la figura del manager, che si occupa solo dei problemi economici, e quella del musicista, che si interessa solo della programmazione musicale. Le due attività non devono essere assolutamente confuse tra di loro. Per quanto riguarda la mia esperienza personale, sono interessata soprattutto a portare avanti il difficile discorso della musica del Novecento; noi compositori cerchiamo di rimboccarci un po’ le maniche. E’ una attività che non mi pesa perché mi porta sempre a contatto con idee nuove. L’intento dell’orchestra da camera “Goffredo Petrassi” è quello di promuovere i giovani, rendendoli in grado di affrontare qualsiasi tipo di repertorio, soprattutto quello contemporaneo.