Confesso di aver avuto una incredibile soggezione all’idea di intervistare Aldo Clementi; il primo impatto ha confermato il mio timore, mentre appena iniziato a parlare si è dimostrato disponibile e ironico, dandomi la possibilità di un secondo incontro per limare il nostro lavoro.
In quale direzione si sono svolti i suoi studi?
Ginnasio, liceo classico, pianoforte, composizione, Lettere. Eliminai prima l’università, poi il pianoforte, dedicandomi esclusivamente alla composizione.
Ci parli dei vari insegnanti che ha incontrato nella sua vita…
Maestri, amici, coetanei, colleghi, allievi, tutti molto importanti se per maestro si intende chi modifica, migliorandola, la nostra vita…!
Fra tutte queste figure quale importanza ebbero per lei Stravinskij e Schönberg?
Di Schönberg conobbi molti lavori già nel ’45, subito dopo la guerra, grazie al mio maestro Alfredo Sangiorgi. Di Stravinskij, oltre a varie partiture sempre appartenenti a Sangiorgi, possedevo già molti dischi diretti dall’autore stesso. Ma ero un po’ un Cherubino; occhieggiavo qua e là e non avevo ancora fatto una vera e propria scelta. D’altra parte da un punto di vista strettamente culturale è tutto importante…

Quando sono iniziati gli studi con Petrassi?
Incontrai Petrassi nel ’52, subito dopo aver portato a termine la parte tecnica degli studi di composizione (Armonia e Contrappunto). Ebbi la fortuna di essere da Lui acettato nella sua classe a Roma. Fu una conoscenza fondamentale: musicalmente, culturalmente e, soprattutto, umanamente…
Come è avvenuto l’incontro con Maderna?
Appena finito il Conservatorio con Petrassi, nel ’55, ebbi l’altra grande fortuna di conoscere Bruno Maderna, che mi aprì prima la strada di Darmstadt, poi quelle dell’Avanguardia e del Post-webernismo.
Con il suo aiuto frequentai a Milano, quasi giornalmente, lo Studio di Fonologia.
Fu a Milano che entrò in contatto con John Cage?
Qualche anno dopo, nel 1958, Cage venne a lavorare allo Studio di Milano al famoso pezzo Fontana Mix. In quel periodo vinse alla trasmissione televisiva Lascia o Raddoppia, 5 milioni (di allora!) come micologo! Non era così famoso come meritava la sua grande personalità.
Appassionati di scacchi tutti e due, non perdevamo l’occasione fra gli anni settanta e gli anni ottanta, di fare, di tanto in tanto, qualche partita insieme…
Prima di arrivare ad uno stile compositivo personale, come erano le sue composizioni?
Come dicevo prima, la mia musica rifletteva tutto ciò che mi stava intorno: più amori contemporaneamente (Hindemith, Stravinskij… Schönberg, Webern…). Passarono molti anni: quello che mi aiutò molto fu la pittura… ricominciai tutto da zero con l’aiuto -oltre che di Maderna e di Darmstadt- della musica elettronica: gli innumerevoli e interessanti problemi di questa si ripercuotevano anche nella musica strumentale…

Questo cambiamento l’ha portata ad annullare tutto quello che c’era stato in precedenza nella musica…
Fu proprio la pittura informale che mi portò a questo desiderio di annullamento. Tàpies, Fautrier, Pollock, Tobey, Dorazio… Uno shock! Pensavo a qualcosa di analogo nella musica: un continuum senza fine e senza inizio, proprio come un quadro di Pollock… Nella realizzazione di tutto ciò mi aiutò moltissimo la musica elettronica, che secondo me sta alla musica strumentale come il cinema sta al teatro: sovrimpressione, ritmo, dissolvenze, montaggio… elementi sonori già registrati su nastro sottoposti poi a violenze e combinazioni di ogni genere…
Le sue partiture sono spesso scritte su un unico grande foglio che mette in rilievo la sua attenzione alla grafica; che importanza ha per lei l’aspetto visivo nella composizione?
L’aspetto visivo è molto stimolante, ma come conseguenza logica e squisitamente funzionale. Lavoro su spessori sonori: una materia molto fitta che si può dilatare o restringere sia orizzontalmente (nel tempo, con accelerati o decelerati) che verticalmente (attraverso la graduale eliminazione di alcune linee). La matrice di partenza può durare pochi minuti, anche meno; ma nel ripresentarsi modificata produce poco a poco un cambiamento quasi radicale del paesaggio iniziale…
Come si pone, allora, nei confronti della musica del passato, basata sulla contrapposizione di idee contrastanti?
Sono stato sempre contrario a questa dialettica che oggi non ha più senso; la dialettica dei contrasti è, bene o male, un continuo riproporre gli assunti della forma-sonata. Quello che conta per me è l’inavvertibilità, la gradualità, il continuum sonoro, senza dei veri inizio e fine.
Perché, dalla composizione B.A.C.H. fino alle composizioni più recenti, ha abbandonato il cromatismo per avvicinarsi a modelli diatonici?
Malgrado questo cambiamento si raggiunge ugualmente il totale cromatico ma con risultati diversi: ogni melodia ha un suo centro (la vecchia tonica, ma senza legami armonici) e l’insieme dei vari centri ha una nuova dolcezza altrimenti irragiungibile. La densità sonora -variabile- fa tutto il resto…
Nelle sue opere è sempre presente il contrappunto: che importanza ha nel suo modo di comporre?
L’interesse per il contrappunto cominciò in maniera accentuata agli inizi degli anni ’60: era presente anche nei lavori precedenti, ma con altre intenzioni; amavo molto la chiarezza, quindi la qualità originale (e tradizionale) del contrappunto. Triplum, per flauto, oboe e clarinetto (1960) appartiene a questo primo periodo.
Nel suo particolare modo di affrontare la composizione ha un peso notevole la casualità; l’autore non è più il padrone di quello che scrive ma si trova sullo stesso piano della materia compositiva. Cosa comporta questo cambiamento di prospettiva rispetto al passato, quando la figura del compositore dominava totalmente la materia musicale?
Un altro aspetto che mi interessa moltissimo: sono stato molto influenzato da Cage, il primo a rinunciare ad essere l’autore della propria musica (I-ching, Zen, caso). Amo molto lavorare senza sapere niente del risultato finale: schemi, griglie, ma senza pensare alla musica che ne deriverà. Alla fine, inventato il codice adatto, scrivere il pezzo è una pura formalità: la composizione nasce per forza propria…
E‘ questo lavoro che rende il compositore, come lei lo definisce, un artigiano?
Tutti i compositori dovrebbero insistere su esercizi artigianali senza scopo. Agli allievi raccomando sempre questo tipo di lavorìo, come sul pianoforte si studiano i martelletti, le scale, gli arpeggi… Ma la paura di un lavoro a vuoto e di perdere esecuzioni preziose li blocca.
In Informel 2 è il direttore a creare, al momento dell’’esecuzione, la forma definitiva della sua composizione; cosa prova a lasciare la sua opera incompleta?
Quanto detto prima a proposito della casualità chiarisce anche questo. Il vero termine da usare è caso controllato, relativo, oltre che al codice di composizione anche al codice di esecuzione.
Un lato avventuroso: le sorprese inaspettate fanno parte del gioco: che di più sottile del piacere di non avere creato…?
Ascoltando le sue composizioni si rimane colpiti da momenti in cui la musica sparisce per lasciare posto al silenzio; che senso hanno queste interruzioni calcolate?
I silenzi sono la logica conseguenza di un intersecarsi di linee e di oggetti sonori. In Triplum, sette discorsi serpeggianti variamente si accavallano casualmente creando sporadicamente dei vuoti. Il tutto nasce da una forza propria di mobilità. Questa strada mi interessa ancora, e con diversa angolazione la sto riprendendo adesso in una composizione per pianoforte e orchestra che Giuseppe Scotese eseguirà tra poco all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

A proposito di questa ultima commissione vorrei chiederle se il suo modo di comporre cambia sapendo che il pezzo sarà destinato ad un preciso esecutore.
Una domanda imbarazzante! Non cambio stile ma sono sicuramente influenzato dal suo modo di suonare, dai suoi gusti…
Faccio in modo di andargli incontro, anche perché so che il pezzo poi ci guadagnerà: è un aiuto reciproco! Ma da giovane non la pensavo così: il problema musicale innanzi a tutto, sfiorando sadismo e castelli in aria…
Cosa pensa della musica di oggi?
Seguo la musica dei giovani, anche se perdo molti concerti e non sono più invitato tanto spesso nelle giurie dei concorsi.
Certo il caso Sciarrino è stato un avvenimento unico, anche se è ormai storia antica. Mi interessa enormemente Wolfgang Rihm. Notevole anche il “vivaio” di Milano. Ma rispetto all’immediato dopoguerra…: la conoscenza di Webern, i musicisti di Darmstadt, Stockhausen, Nono, Boulez… irripetibile!