Lei è stato definito un musicista “fortemente impegnato nel raggiungimento della comunicazione espressiva”. In che modo comunica con chi ascolta le sue composizioni?
La comunicazione è sempre stata alla base della mia ricerca compositiva.
Al termine degli studi, soprattutto in Italia, si ha in mente molta teoria e poca pratica; pratica nella quale rientra non solo il rapporto con il pubblico, ma anche quello con gli altri musicisti. Lo stesso discorso si può fare per i musicisti, che dovrebbero suonare insieme, perché alla base della musica c’è il “consuonare”. Un aspetto più sottile di questa consonanza è il rapporto con se stessi. Molto spesso un compositore, all’inizio della carriera, si sente in obbligo di dimostrare qualcosa, scrivendo pezzi molto impegnativi, difficili, dissonanti; andando avanti, invece, ci si rende conto che bisogna cercare un modo di comporre che sia in armonia con se stessi, che esprima veramente le necessità espressive che si hanno. Per me comunicazione non è la ricerca di un pubblico, ma ricerca espressiva di ciò che si è e di cui si ha bisogno. Questo dà modo di entrare in consonanza con chi ascolta la musica e soprattutto con se stessi, creando oggetti musicali, suoni, composizioni espressive che mettano in rapporto con gli altri. Parlando soltanto di comunicazione si rischia di essere fraintesi e passare per commerciali.
Anche come direttore artistico ha seguito gli stessi ideali?
Come direttore artistico di Nuova Consonanza il discorso era molto simile e ha avuto anche un grande successo. Anche se difficile da percorrere mi sembra una strada sulla quale valga la pena di continuare a lavorare, perché si trovano sempre nuove risposte…
Cosa l’ha spinta a scrivere e a tenere seminari?
Il mio obiettivo principale è sempre stato quello di rispettare la mia necessità espressiva, sottolineando che quello che scrivevo derivava da una riflessione interna. Mi sono sempre interessato anche alla teoria della musica, perché penso che della musica si debba anche poter parlare; per questo mi sono sempre sforzato di dare una cornice di ricerca al mio lavoro di compositore attraverso un supporto teorico. Mi sono occupato dei problemi che riguardano il far musica oggi. Abbiamo tanti tipi di musica e altrettanti tipi di pubblico: è una situazione molto frammentaria, che dà luogo a molti equivoci tra chi parla e chi ascolta; penso che quindi sia necessario essere chiari in partenza, esplicitare quello che si dice e perché si dice. Purtroppo viviamo in una situazione molto complessa, nella quale non si sa più cosa è musica e cosa non lo è. Perché la musica non sia una babele è necessario che ognuno si prepari al confronto con gli altri, a livello interpersonale ma anche tra culture e civiltà diverse.
La sua vita di musicista è cominciata come direttore di coro…
Sono stato molto appassionato del coro, dirigendo per molti anni prima un coro di dilettanti poi uno di professionisti con il quale abbiamo affrontato il repertorio polifonico. Ho sempre amato molto la vocalità.
Le sue opere sono state influenzate da questa formazione?
Curiosamente, nel primo periodo ho scritto soprattutto musica strumentale; solo da una decina di anni ho cominciato ad avvicinarmi al canto; la voce, che è stata la mia prima passione, nelle mie composizioni è arrivata per ultima.
Quali sono state le esperienze più importanti per la sua attività?
Una esperienza fondamentale è stata quella teatrale; ho avuto due opportunità molto importanti, una a Monaco per la Biennale di Teatro, il festival diretto da Hans Werner Henze, l’altra con il Teatro Sperimentale di Spoleto. Penso che continuerò a lavorare per il teatro perché è una forma nella quale la musica acquisisce un ruolo molto importante.
Mi ha segnato molto anche l’esperienza elettroacustica; devo dire che ultimamente la situazione è diventata ancora più interessante, perché ci sono degli ottimi strumenti con i quali il compositore può lavorare. Si ha la possibilità di inventare suoni straordinari, senza nessuna paura di creare suoni “finti” o artefatti. Gli strumenti elettronici sono talmente perfezionati che si ottengono effetti incredibili, come per esempio la spazializzazione del suono, con la quale si può giocare sull’acustica della sala lavorando sulla partitura durante i concerti.
Non si rischia così di eliminare la figura dell’esecutore?
Gli esecutori sono insostituibili, sia per la qualità del timbro, sia per l’amore che mettono nel suonare uno strumento. Dedicarsi alla pratica di uno strumento non fa crescere solo la tecnica, ma forma una disponibilità nei confronti del suono e un apparato di ascolto di quello che si crea suonando, per cui si sviluppa una vera e propria maturità musicale. Penso che lo studio degli strumenti tradizionali sia insostituibile, e anche la strumentazione elettronica andrebbe affrontata allo stesso modo, con lo stesso tipo di amore e di disponibilità. E’ proprio questo amore che ti fa “ascoltare” lo strumento che suoni, ti fa crescere come strumentista, come interprete, come compositore. Anche il compositore deve ascoltare quello che scrive, e capire da quello che ascolta dove intervenire per migliorarlo; solo con questo circuito continuo si forma uno stile. Il vero lavoro del compositore è quello di creare uno stile proprio, che si forma con un grande amore per quello che fa. Tutto questo con una forte dedizione che porta a migliorare di volta in volta il risultato che si ottiene.
Crede che ci possano essere dei punti di contatto tra la musica colta e quella leggera, pensando anche al diverso successo che riscuote la seconda?
E’ un discorso complicato, perché secondo me non si deve andare mai alla ricerca di un pubblico; sono sicuro che se una grande industria la facesse rientrare nella sua strategia commerciale, anche la musica contemporanea dopo un anno venderebbe come i Take That. La musica leggera non è un fatto commerciale in sé, ma lo sfruttamento commerciale di una esigenza vera; sfruttamento commerciale che fa sì che una sola esigenza diventi l’unica (come ad esempio la musica che i giovani ascoltano in discoteca), escludendo altri tipi di musica, come ad esempio la classica, sicuramente meno fruibile perché si rivolge ad un gruppo ristretto di persone, quindi meno interessante come investimento. In questo mondo in cui il profitto ha un posto preponderante, la musica contemporanea ha ovviamente un ruolo marginale. La musica leggera comunque non va assolutamente condannata, sarebbe invece molto importante dare una educazione musicale più adeguata nelle nostre scuole, assolutamente carenti da questo punto di vista. Inoltre anche il musicista dovrebbe essere messo in grado di avere più possibilità di colloquio con il pubblico. Viviamo in una società che porta avanti, mettendola quasi su un altare, solo un tipo di musica; l’uomo ha invece molteplici esigenze, anche culturali, e una società che ne considera solo una è una società che preoccupa. L’Italia è molto indietro da questo punto di vista rispetto agli altri paesi europei…
In che rapporti è con la musica del passato?
A me piace tutta la musica, anche quella leggera, perché ripeto che in momenti diversi si hanno esigenze diverse e diversi tipi di musica. Sarebbe assurdo rimanere sempre legati ad un solo genere. La musica è tutta bella quando corrisponde a quell’amore di cui parlavo prima, quando è il prodotto di un uomo in armonia con se stesso e corrisponde a una esigenza reale.
L’uomo è fatto di tanti aspetti, soprattutto culturali, che però non emergono mai tutti insieme, ma in contesti e in situazioni diverse. Spesso la musica contemporanea non viene capita proprio perché non viene contestualizzata; viene inserita in concerti che diventano terrificanti, dove ci sono solo composizioni di difficile ascolto. Quando organizzavo il Festival di Nuova Consonanza cercavo di creare dei programmi che variassero l’attenzione del pubblico, accostando pezzi classici al repertorio contemporaneo, e non per un discorso di successo, ma perché non si può pretendere una concentrazione eccessiva e costante da parte di chi viene a sentire della musica. Bisogna organizzare dei programmi con un andamento più ‘umano’ e vario.
Per lei ha più importanza l’ispirazione del momento o la preparazione che precede la stesura di un pezzo?
Per me sono molto importanti entrambe. Le mie composizioni hanno una gestazione interna abbastanza lunga: trascorro molto tempo a pensare, ad organizzare mentalmente le varie parti, senza scrivere nulla. Quando sento che l’idea è maturata allora scrivo, e posso essere anche molto veloce. Se non si ha ben chiaro il quadro di insieme si rischia di essere dispersivi…
Cosa significa Alba, “Cantata sulla perdita del sacro”?
E’ un po’ complesso spiegarlo: posso provare a sintetizzarlo in due parole… Penso che in questo momento ci sia troppa attenzione per alcuni aspetti della vita e molto poca per altri; si tende a dare troppo spazio alle cose materiali e concrete. Questo succede anche con l’arte, con le immagini. Oggi, per esempio, vediamo la mitologia greca come una telenovela a puntate, in cui Giove conquista prima una poi un’altra donna; non ci si accorge più di quello che la mitologia nascondeva, cioè tutto un apparato di pensiero e tutta una serie di modi di essere che andava dal quotidiano e concreto fino al sacro. Si sta perdendo l’attenzione dell’uomo per se stesso, ed è per lo stesso motivo che anche l’ambiente è in crisi. L’uomo è in crisi perché non è più attento a quelle che sono le sue necessità -le vere necessità. Non si fa più attenzione neanche a come si sta seduti; siamo preda di una massa di tensioni senza che ce ne rendiamo conto, facendo del male a noi e a chi ci sta intorno. “Perdita del sacro” non vuol dire dunque che è necessaria più religione; il sacro non è soltanto qualcosa di trascendentale, ma comincia dall’amore per se stessi, dall’attenzione per ciò che significa stare bene. Credo che sia molto raro trovare una persona disposta a rinunciare a qualcosa per stare bene. La perdita del sacro è il venir meno del vero star bene.
Alba è stato un lavoro molto importante perché ha significato spezzare una lancia a favore di questa idea.
Il suo primo lavoro pubblicato era destinato a un complesso di flauti dolci…
Fu una composizione che piacque moltissimo, anche se in realtà era un gioco… La scrissi nel 1972, quando andava molto di moda la musica aleatoria; Franco Evangelisti, con il quale studiavo, mi disse di comporre un pezzo aleatorio. A me sembrava un concetto un po’ strano, così decisi di scrivere una composizione per flauti dolci, perché potesse essere eseguita anche da bambini. Si tratta di una serie di frammenti melodici inseriti su un cerchio orientabile, per cui chi suona può cominciare dove vuole. La composizione era costruita in modo che alla fine tutti potessero andare sempre insieme, ed è eseguibile da due a un gruppo infinito di flauti dolci.
Pensa che ci siano dei criteri universali per giudicare un’opera d’arte?
Penso che sia veramente importante la contestualizzazione, per cui un’opera può risultare importante in un contesto ma non in un altro. Non si può assolutizzare.
L’unica risposta possibile è l’attenzione che ognuno di noi è disposto a mettere nell’ascolto; ciò che si ritiene valido non può esserci imposto da nessun altro. Bisogna diventare sempre più consapevoli delle proprie necessità e possibilità di ascolto, cercando di capire quando e dove si stabilisce una consonanza. La musica, bella o brutta che sia, deve avere un senso per chi ascolta. Le variabili sono così numerose che non si può pensare di trovare un unico criterio, perché magari anche quando lo si è trovato col tempo può cambiare di nuovo. Bisogna ascoltare se stessi per poter comunicare con gli altri…