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Le sue prime esperienze legate all’arte sono state quelle con l’insegnamento pittorico ricevuto da suo padre. E’ stata determinante questa formazione per il suo approccio alla musica?

Nella mia famiglia non solo mio padre era pittore, ma lo era anche mio nonno, così la prima cosa che ho fatto è stata imitare “i genitori”. Successivamente ho studiato pittura frequentando il liceo artistico e contemporaneamente mi sono avvicinato alla musica. Mi riusciva difficile imparare un gesto pianistico che mi permettesse di non rimanere dilettante. Ho avuto la fortuna di incontrare grandi maestri come Mario Zanfi e Bruno Bettinelli, ricevendo gli insegnamenti di una tradizione che, insieme a quella dell’artigianato musicale, è rimasta in me ben radicata.

Cosa ha trovato di comune tra l’’esperienza pittorica e quella musicale?

Verso la fine degli anni Sessanta, l’idea di un segno che potesse suggerire un gesto capace di produrre suoni nuovi è stata influenzata dagli studi pittorici.

Poi è stata più la concezione dello spazio figurativo ad influenzare una certa idea formale del pezzo, solo marginalmente la grafica della partitura. Forse mi è stato utile per capire questioni di timbro e colore, studiare l’impressionismo pittorico parallelamente quello musicale e quello poetico-letterario. Mi ha sempre appassionato l’uso del colore, l’impasto e la ricerca timbrica, non fine a se stesso, ma come elementi che determinano la forma.

E la sua grande passione per il teatro come è arrivata?

Anche questa è sicuramente legata all’imitazione di mio padre, il quale, oltre ad essere pittore e caricaturista, aveva una grande passione per il teatro. Era regista di una compagnia teatrale che io seguivo. Vedere realizzati effetti come scenografici come quelli che potevano essere ottenuti in un piccolo teatro di provincia mi colpiva profondamente. Mio padre affrontava anche messe in scena di teatro musicale, operette, e da bambino ero sempre entusiasta di tutto questo. A mia volta, appena si è presentata l’occasione di avere a disposizione uno spazio teatrale, ho cominciato col fare il regista. La prima esperienza è stata tra i 18 e i 20 anni, con una compagnia di studenti; oltre alla regia ho fatto di tutto: ho costruito la scena, dipinto le quinte, curato gli effetti di luce, e tutto mi è servito per capire i tempi del teatro. Il punto è sempre lo stesso: quello di realizzare l’evento partecipando con tutto il corpo. La mia è voglia di fare musica comunicando attraverso qualsiasi genere artistico.

Ecco perché quando scrissi Gargantua -era il momento in cui Ligeti aveva scritto La Grand Macabre e Stockhausen le prime opere, mi accostai al teatro con una idea di teatro narrativo, espressionista, capace di raccontare una storia. Questa idea in seguito si è sviluppata fino a Divara in maniera sempre più cosciente.

Dalle sue opere emerge uno stretto legame con il passato, che va da Rossini ai canti popolari siciliani. Quanto rimane del materiale preesistente nella sua memoria?

In un primo momento è stato qualcosa di abbastanza inconscio: non dico di essere passato attraverso la fase della citazione dotta, ma di aver capito che alcuni segnali potevano solleticare archetipi culturali presenti negli spettatori. Poco alla volta sono arrivato ad alcuni pezzi da camera come Ninnìos tratto dai canti popolari siciliani, e Consonançias y redobles derivato dall’opera chitarristica di Luis Milan.

Mi sono accorto che il linguaggio musicale particolare -contaminato da altri elementi- determinava una reazione nello spettatore. Quindi per poter dire qualcosa, ed essere ascoltato, ho cercato un modo di comunicare attraverso quello che ho in comune con gli ascoltatori, cioè un archetipo culturale.

Con il Gargantua era facile partire dal rapporto con la piazza, con il popolo che ride e quindi con la tradizione dei canti popolari; ma non appena sono arrivato alla satira nei confronti dei dottori della Sorbona sono emersi elementi tratti dal canto gregoriano. Successivamente questo modo di procedere si è rivelato molto valido per me sul piano della comunicazione, poiché riuscivo a proporre ciò che volevo, rimuovendo o smuovendo nell’ascoltatore dati che appartengono alla nostra cultura.

Negli anni Sessanta, invece, pensavo utopicamente che tutto dovesse essere trasceso. Attraverso pezzi come Tactus ero arrivato al punto massimo di negazione di una scrittura; erano i tempi della mia collaborazione con il Carrozzone di Firenze, poi diventato i Magazzini criminali. Insieme a Sandro Lombardi, Marion D’Amburgo e Federico Tiezzi, ci incontrammo per ideare una nuova forma di spettacolo. Tracciai una regia sonora, all’interno della quale comparivano unicamente le note della serie degli armonici di re bemolle di cui parlava Schneider nel libro Il significato della musica.

Successivamente ho iniziato un cammino diverso, ma senza abbandonare il concetto di utopia che permane anche nei soggetti delle mie opere, da Gargantua a Blimunda: la voglia di volare, di non essere condizionati, di avere il coraggio dei propri sogni.

Con quali criteri affronta il lavoro di revisione critica?

Da parte di Casa Ricordi mi è stato richiesto di realizzare una raccolta di arie da opere vivaldiane presso il “Fondo Foà e Giordano” della Biblioteca di Torino. Subito dopo questo lavoro, nel ’68 scrissi Hop-Frog, un pezzo nel quale io inserii anche elementi vivaldiani. Nel 1992, in seguito alla revisione dell’Italiana in Algeri, una edizione critica durata 10 anni, mi chiesero delle trascrizioni. Cominciai con la trascrizione ma, procedendo nel lavoro, mi accorsi che diventava dapprima una rielaborazione, poi si trasformava in qualcos’altro, così pensai di andare oltre. Dalla Suite Dodo, arrivai a Un petit train de plaisir, una composizione che fa riferimento ad un Rossini autodefinitosi “pianista di quarta classe”: ho immaginato un pezzo in cui, nel salotto di Rossini, Liszt e Moscheles si trovano a improvvisare su i Péchés de vieillesse. Sono andato avanti su questa strada, sino ad Animi motus, composto per il Kronos Quartet, nel quale ho inserito il Moto perpetuo di Paganini, a rielaborare le composizioni da camera di Verdi, in Amor sacro/Amor profano; oppure a scrivere una cantata, La cetra appesa, commissionata dalla Fondazione Toscanini di Parma per le celebrazioni del cinquantenario della Liberazione d’Italia, per la quale mi richiesero esplicitamente di citare Verdi. Allora è nato il riferimento al coro del Nabucco, che rimanda al rapporto fra lotta di Liberazione e lotte risorgimentali. In questi giorni ho ultimato una trascrizione delle Nuit d’été a Posilippe di Donizetti per le celebrazioni del centenario della nascita.

Lei ha scritto anche delle cadenze per il Concerto per flauto e orchestra K. 313 di Mozart…

Sono state scritte per un amico e compagno di studi, Bruno Cavallo, primo flauto della Scala di Milano, che doveva eseguire il concerto con Gavazzeni e mi aveva chiesto di scrivergli le cadenze. Anche in questo caso più che alla filologia ho guardato, come compositore, alla musica e, partendo dalla musica, senza modificare il linguaggio di Mozart, mi sono divertito a scrivere delle cadenze come le avrebbe scritte un compositore del nostro tempo. Di filologico, in quelle che sono le mie trascrizioni, non c’è niente. Il mio è un rapporto con la tradizione come potrebbe essere quello di Stravinskij o di Britten.

Quale significato ha la banda in scena impiegata da lei ne La cetra appesa?

E’ legato al discorso che facevo prima sulla memoria; quando mi è stata commissionata la cantata ho subito precisato che, riguardo al rapporto con Verdi, non avrei utilizzato affatto il Nabucco. Poi, alla ricerca di un testo commemorativo e di un legame con Verdi, scoprii che anche la prima lirica composta da Verdi, intitolata L’esule, aveva lo stesso testo e lo stesso tema del Nabucco, ed era di Temistocle Solera.

Da questo rapporto fra testo di Solera per L’esule e testo di Nabucco arrivai immediatamente a quella che era l’origine i entrambi: il Salmo 137 di Davide, e da questo a Alle fronde dei salici di Quasimodo il passo era breve. Così collegai i testi tra di loro ritrovandomi tra le mani il Nabucco, che non volevo assolutamente citare ma semplicemente rievocare come memoria storica, per rappresentare che cosa era stato per me il Dopoguerra. Allora non c’erano mezzi per ascoltare la musica all’infuori di quella che era l’esibizione dal vivo, non esisteva l’alta fedeltà. Da ragazzino, nel primo Dopoguerra, ascoltai il Nabucco per la prima volta dalla banda del paese.

Nella Cetra appesa la memoria del suono della banda arriva come un vento che porta, attraverso la componente fonetica, spogliata addirittura delle vocali, i suoni del Nabucco di Verdi. Nel riproporlo in una determinata forma, all’interno della Cantata, ho pensato che doveva risuonare altrove, lontano. Così, dato che La Cetra appesa doveva essere eseguita in San Petronio, la banda avrebbe suonato all’esterno, sulla piazza, creando questo gioco di cori battenti: uno riguardava la mia memoria del Nabucco ascoltato da ragazzino dalla banda, l’altro la risposta operistica suonata dall’orchestra e dal coro. Tutto questo in un vortice che collega il testo di Quasimodo, il “vento” di un canto partigiano e il Nabucco a quelle lacerazioni  provocate in me dalla guerra. Io allora a Torino ho assistito ai bombardamenti della città, il cielo rosso di fiamme, i bengala, e la guerra la ricordo con terrore. Ho visto i partigiani uccisi per le strade, la ritirata dei tedeschi e l’arrivo degli americani. Ho voluto inserire questa testimonianza vissuta perché mi viene spontaneo raccontare, quindi mettere in musica, quello a cui ho partecipato emotivamente.

Nell‘opera lei descrive il poeta che, ridotto in schiavitù, appende la cetra alle fronde del salice. E’ anche un suo gesto di protesta nei confronti della società di oggi?

E’ una posizione, se vogliamo “etica”; per libertà non intendo solo essere liberi di fare ciò che si vuole, ma anche il rispetto della libertà altrui e il rapporto con gli altri; se non si è liberi, se non esiste questa condizione, ci si può sentire schiavi di qualsiasi cosa (del conformismo, delle mode); e se non si è liberi non si riesce a cantare.

Queste sono le parole di Solera tratte dal Salmo 137 di  Davide: “Arpa d’ôr dei fatidici vati/Perché muta dal salice pendi?”; il popolo in schiavitù compie questo gesto simbolico appendendo l’arpa ai cedri del Libano: io non canto perché non sono libero. Rapportato ai nostri giorni questo concetto fa pensare, anche perché, per dirla con Fabio Cifariello Ciardi, la nostra è musica “fragile”, non è né musica colta né extracolta, è musica fragile.

Non si trova più il tempo di partecipare ad un evento che esige un rapporto di tipo sociale, di disponibilità e soprattutto di partecipazione entusiastica nel vero senso della parola, nel senso dionisiaco del termine.

“L’arte, l’amicizia, la generosità di Azio Corghi hanno apportato al disegno della mia esistenza una ricchezza cui, da solo, io non sarei mai giunto”. Come nasce la felice collaborazione con Saramago che descrive con queste bellissime parole il vostro rapporto?

Dopo aver letto, appena pubblicato da Feltrinelli, Memoriale del Convento e, prima di leggere il libro, anche la recensione che ne fece Tabucchi su La Repubblica, intitolata “Frati, roghi e mongolfiere”, cercai di mettermi in contatto con Saramago per avere il permesso di trarre il soggetto per una nuova opera. Ci volle un po’ di tempo, un giro lunghissimo di giornalisti, tra questi Alberto Sinigaglia e Rigoni Stern, e finalmente riuscii a incontrare Saramago a Roma. Avevo saputo che aveva detto di no a Fellini per fare un film dal Memoriale del Convento; in realtà non fu categorico, ma aveva dei dubbi sulla possibilità di orientare il suo romanzo su un fatto cinematografico. Dopo aver ascoltato la descrizione che feci del mio progetto, non disse di no ad una operazione di teatro musicale. Devo dire che, prima di tutto, Saramago è un appassionato di musica: nelle sue conferenze cita cantando il recitativo del finale della Nona sinfonia. Inoltre tra me e lui c’è lo stesso modo di vedere le cose e il mondo, che fece scattare un meccanismo di reciproca stima e ammirazione. Quindi, quando gli parlai del progetto -la mia prima idea era quella di fare un Orfeo al femminile- lui mi disse che avremmo chiamato Blimunda l’opera, poiché riteneva che i titoli delle opere dovessero portare un nome solo. Su richiesta gli inviai lo schema dell’opera, e in questo modo organizzammo insieme la sceneggiatura. Anche se la richiesta iniziale era partita da Piero Rattalino, che aveva già commissionato per il Regio di Torino il Gargantua, Blimunda fu una operazione che ebbe, per una serie di motivi tecnici e pratici, come sempre avviene, la commissione definitiva della Scala.

La collaborazione con Saramago cominciò attraverso questa lettura del Memoriale del Convento per continuare poi a Lisbona, dove la concomitanza tecnica con uno sciopero che impedì l’andata in scena di Blimunda fece sì che io e Saramago ci trovammo a parlare di un progetto con Will Humburg e Mimma Guastoni. Humburg, che era appena stato nominato direttore artistico a Münster ci propose un’opera sulle storie degli Anabattisti. Fu un lavoro di collaborazione molto più stretto e intenso, poiché non esisteva un testo dal quale trarre il soggetto, ma bisognava costruirlo.

Ancora una  volta ci trovammo d’accordo nel sottolineare un personaggio femminile, facendo diventare la regina Divara -che tutto sommato nelle storie degli anabattisti è un personaggio secondario- la figura più importante.

Dopo Divara è nata poi, dal Vangelo secondo Gesù, la cantata La morte di Lazzaro rappresentata alla Scala, eseguita dal coro e strumentisti della Scala diretti da Roberto Gabbiani.

Quali rapporti ci sono tra lo strumento e i personaggi di Ruzante in Intermedi e canzoni per trombone solo, da lei dedicati a Lomuto?

Incontrai Lomuto perché mi chiese di scrivere un pezzo per lui. Venne a Milano, nella mia classe in conservatorio, dove fece una lezione ai miei allievi di composizione che rimasero entusiasti delle sue capacità di essere e grande interprete e grande comunicatore; è un artista che non suona solo quello che c’è scritto, va ben oltre, che comunica e affascina con le sue esibizioni.

La prima idea, quando scrissi il pezzo, arrivò in concomitanza di una richiesta di musica di scena per La Piovana del Ruzante per De Bosio, Luzzati e Calì, regista, scenografo e costumista del Gargantua. Così, avendo come riferimento il personaggio del trombonista, che io pensavo di mettere sulla scena, scrissi questi pezzi ispirandomi a diverse situazioni della Piovana. Durante la scrittura indubbiamente la sua collaborazione sul piano propriamente tecnico è stata fondamentale, perché certe soluzioni un compositore non le può neanche immaginare.

Io voglio sempre scrivere tutto ma per farlo in modo chiaro devo conoscere esattamente ciò che si può scrivere. Così come l’uso delle sordine in questo senso è emblematico: il cambio di sordina ad un certa velocità non sarebbe stato possibile se Lomuto non avesse impiegato una tecnica che gli permetteva di entrare nella sordina con il trombone sistemando le sordine su un cavalletto.

Non sarebbe stato possibile, per me, neanche usare un certo tipo di rapporto con la respirazione continua se lui non mi avesse offerto l’esempio concreto addirittura riuscendo un canto simultaneo. Di conseguenza la partitura risulta scritta su 4 righi, a seconda dei diversi gesti che sono richiesti alle varie parti del corpo. Su ogni rigo è richiesto all’esecutore un gesto diverso: c’è il rigo dove canta, dove suona in un certo modo con una sordina, in un altro modo con una diversa sordina e il rigo in cui agisce con i piedi.

Nelle sue composizioni lo strumento sembra quasi un personaggio teatrale…

In “… fero dolore” ho studiato tutto un percorso per l’oboe; il pezzo non è mai stato eseguito nella forma visiva che intendevo io per una questione di struttura dei teatri italiani, di spazio a disposizione per poter muovere questo strumento che si muove lungo un percorso particolare. E’ l’oboe che arriva da lontano, che ci abbandona e scompare, c’è questo rapporto con la gestualità teatrale che io cerco sempre.