
Per descrivere la sua musica lei ha scelto il termine “fragile”. Ci vuole parlare di questa particolare definizione citata su queste pagine da Azio Corghi?
Ho parlato di musica “fragile” nel mio saggio Sentieri convergenti? Musica e memoria ai limiti della costellazione postmoderna. Il termine parte dalla considerazione che la gravità dei problemi del compositore italiano è testimoniata emblematicamente già a partire dalla difficile definizione della propria musica. Oggi ogni aggettivo associato alla parola musica sembra destinato solo a fomentare critiche: nel chiamarla colta, alta, d’arte si provoca ormai stizza per l’implicito giudizio di valore troppo spesso confutabile; d’avanguardia, nuova, contemporanea sono qualità temporali condivise da musiche troppo diverse fra loro (il rap è meno contemporaneo di Berio?). Le rimanenti possibilità non sono troppe: rimane quella di un plurale generico, ma realistico (musica fra le “musiche contemporanee”); quella di una pacifica accettazione degli aggettivi storici (contemporanea, colta, nuova) e quella della definizione per difetto (musica pesante, musica “fragile”). Il saggio mirava a dimostrare, fra le altre cose, la positività di una tale fragilità. Ovvero: il termine fragile rimanda a due concetti: quello di delicatezza (qualcosa di fragile si distrugge facilmente), e quello di preziosità (qualcosa di prezioso, spesso, è anche molto fragile). Questi aspetti possono riguardare da vicino le musiche d’oggi; musiche fragili perché scomode da ascoltare, emarginate, ma complesse, ricche e quindi anche orgogliose di mantenere una loro fragilità intesa come preziosità, come valore.
Non trova che però ci sia una discrepanza tra l’ideale di chi compone e il pensiero del pubblico che ascolta?
La discrepanza è spesso una distanza che riguarda la funzione e il senso della musica: c’è uno iato naturale e ineliminabile tra ciò che un brano è per chi lo ha composto e ciò che diventa per il pubblico che lo ascolta. L’esperienza dell’ascolto implica una continua e personale definizione e ridefinizione di aspettative che emergono nel momento in cui il suono entra in contatto con le nostre memorie, personali e condivise. E’ un processo più o meno conscio che si articola secondo strategie mutevoli e personali: personali intanto perché c’è chi, ad esempio, tende per lo più a seguire la macroforma e chi si lascia andare invece ad un ascolto “bergsoniano”, fatto di istanti non collegati fra loro; strategie mutevoli perché influenzate da un’infinità di fattori legati al tempo, all’umore, al momento del giorno. Personalmente quando accendo la radio la mattina, mentre preparo la colazione, chiedo alla musica cose in parte diverse da quelle di cui ho bisogno la sera quando mi siedo in una sala da concerto.
In ogni caso l’esperienza musicale si lega spesso alla possibilità o alla capacità dell’ascoltatore di rimanere attento, curioso, e di azzerare allo stesso tempo le aspettative. Non è certo facile, specie se si è poco educati all’ascolto. A questo proposito ho in mente una folle ma possibile lezione di musica: si esce all’esterno, in un parco o anche in mezzo al traffico e si ascolta il mondo, come se fosse una sinfonia: i temi ricorrenti, i contrappunti fra materiali sonori diversi, le interruzioni, i passaggi graduali e così via. Questo interrogarsi sulla natura musicale del paesaggio che ci circonda può rivelarsi estremamente utile per definire delle categorie di pensiero agili, flessibili, da poter poi utilizzare durante l’ascolto di un brano anche molto complesso.
Forse anche in passato ci sono state delle corrispondenze tra i suoni della natura e nascita della musica…
E’ inevitabile, le nostre orecchie sono sempre le stesse. Ma non è il riferirsi più o meno alla natura che conta: nel momento in cui si riesce a sentire tutto ciò che si è sempre ignorato in termini musicali, allora un suono precedentemente ignorato, insignificante e quindi incompreso può esplodere nel cervello -in termini di esplosione dei possibili significati. Ma attenzione, praticando con costanza tali esplosioni si può poi anche correre il rischio di apprezzare un concerto di musica contemporanea o di musica elettronica!
Di solito invece siamo colpiti da ciò che già conosciamo…
Non sempre. La colpa, si potrebbe dire, è di Adorno, responsabile di un forte irrigidimento riguardo al sentiero che conduce alla comprensione della musica. Semplificando di molto il pensiero del filosofo in A proposito di pedagogia musicale (in Dissonanze, ed. Feltrinelli): se non si è in grado di cogliere gli aspetti squisitamente costruttivi di un brano attraverso un ascolto analitico non si può affermare di aver capito la musica. Se così è nella maggior parte dei casi ritengo di non capire la musica, neanche la mia. Non mi vergogno di dire che se da un lato sono capace di seguire la forma, il percorso armonico e tematico di una sinfonia, di un quartetto, un tale ascolto spesso mi annoia profondamente, non mi dà alcun piacere. Preferisco invece abbandonarmi al flusso sonoro, cercando di galleggiare in un mare d’informazione che tenta di sommergermi; ma senza ansia, anche quando per qualche secondo mi ritrovo completamente immerso e incapace di orientarmi nei suoni che mi circondano. Lasciamoci travolgere dal suono! Sentiamoci liberi e legittimati a collegare il suono con qualsiasi cosa musicale o extramusicale che sia: maggiori sono le attivazioni di parti del nostro cervello -non importa quali- maggiore è la nostra comprensione. Il pretendere di imporre quali conoscenze sia giusto attivare per arrivare ad una forma riconosciuta di comprensione è insostenibile e lascia trasparire una rigidità sottilmente e perfidamente “borghese” oltre che una fede in un’unica verità nell’esperienza dell’ascolto tutta da dimostrare.
Anche perché secondo questo pensiero dovrebbe andare ai concerti solo chi ha studiato musica…
Appunto, è importante riuscire ad essere totalmente aperti di fronte all’esperienza musicale per lasciare che qualsiasi suono sia in messo in grado di attivare ogni possibile parte del nostro essere. In questo senso, ad esempio, un’arte può aprire un accesso alla comprensione di un’altra arte: personalmente emozionandomi di fronte a un quadro di Kandinskij già mi predispongo positivamente all’ascolto di una musica complessa e altrettanto astratta.
E‘ con un’’emozione che viene attivata la nostra attenzione…
Sì, perché a quel punto mi ritrovo ricettivo, curioso. Gli ascoltatori curiosi sono gli unici ascoltatori di cui mi occupo.
Mi spiego: finché non ci si ribella alla passività dell’ascoltatore non si può fare altro che dibattersi in modo più o meno maldestro entro i termini di un dizionario musicale limitato e limitante fondato su cliché consunti dalla storia e dall’uso. Amo le poetiche complesse e ritengo eticamente necessaria la ricerca di strategie sempre più efficaci per scuotere l’ascoltatore passivo, per attivare la sua curiosità e la sua ricettività.
Che credo sia molto importante…
Il mio obiettivo è ritrovare, anche solo per qualche istante, l’ascoltatore impegnato a riflettere su a ciò che ha appena finito di ascoltare; non chiedo di più… Ma è già molto, visto che il fermarsi a pensare è un’attività tendenzialmente negata dall’organizzazione del mondo in cui viviamo. Siamo vittime distratte di ondate istantanee d’informazione confezionata per sovrapporsi e cancellare il più rapidamente possibile altra informazione appena recepita e non certo elaborata a fondo. Il momento della riflessione è quindi un momento raro, prezioso, fragile, carico di valore.
Anche perché si imprime nel nostro cervello…
Certamente, ma attenzione: non credo ad assunti neoromantici o neominimali che comportino una brutale regressione su molte delle dimensioni che definiscono il linguaggio musicale. Non sento il bisogno di rinunciare, ma di meglio organizzare e comprendere ciò che ho a disposizione. La rinuncia come garanzia di un aumento d’intelligibilità poi trovo sia un atteggiamento esteticamente deprecabile. Siamo così poco consapevoli dei meccanismi che attiviamo nell’ascoltatore nel momento in cui gettiamo un suono nelle sue orecchie che è lì che mi sembra di dover cercare.
Cosa pensa, allora, quando compone?
Di solito parto da una idea generale e da alcune idee particolari e meno astratte, in qualche modo già agganciate all’idea generale. Entrambe possono essere più o meno legate a un materiale musicale.
Ad esempio durante il mio soggiorno all’IRCAM, nel 1991, avevo ampiamente approfondito l’estetica e gli strumenti concettuali della musica spettrale(quella di Murail, Grisey, Dufour) ed ero curioso di inserire l’esplorazione del sottile confine tra timbro e armonia nel mio lavoro. In Mirrorshades II per orchestra, scritto nel 1992, ho per così dire appagato la mia curiosità derivando la gran parte del materiale armonico del lavoro direttamente da alcuni suoni di timpano precedentemente registrati e analizzati al computer; il resto del materiale cresceva e si alimentava come un muschio, con questo ricco accordo-timbro.
In altri casi invece l’idea generale ha riguardato un certo tipo di espressività. Attualmente sto lavorando a un concerto per oboe e orchestra commissionato dell’Orchestra Regionale del Lazio. In questo caso mi interessa approfondire una potenziale aggressività dell’oboe molto vicina alla chitarra elettrica del rock più genuino. Il piglio aggressivo di Jimmy Hendrix trasferito su una delicata ancia doppia… una bella sfida, non trova? L’idea di una distorsione elettrica nata dalla sovrapposizione selvaggia di parziali, armonici e non, ovviamente, ha poi la sua ricaduta anche nel trattamento dell’orchestra.
Non si pone il problema di chi è l’ascoltatore e di cosa possa interessarlo?
No, o almeno non ne faccio una questione in grado di stravolgere i miei progetti estetici. Mi interrogo invece sui possibili livelli di interpretazione che si rendono disponibili all’ascoltatore. Penso a Umberto Eco che nelle postille a Il Nome della Rosa afferma che scrivere un romanzo sia “una faccenda cosmologica”: l’autore costruisce un mondo che può essere esplorato dal lettore secondo sentieri diversi e infiniti. In quel caso si poteva oscillare liberamente tra il romanzo storico, l’intreccio poliziesco, il saggio sulla vita religiosa del Medioevo. Un affascinante corollario di tale approccio è che una volta attivata una polifonia possibile di percorsi interpretativi diversi, si assiste a una proliferazione, spontanea e incontrollabile, di percorsi spesso assolutamente non previsti o immaginabili dallo stesso autore.
Per tornare al problema dell’ascoltatore: utilizzando la metafora pubblicitaria potrei affermare che non smetto di produrre ciò che non incontra rapidamente i desideri del consumatore, ma tendo a creare prodotti multifunzionali, in cui i “doppi e tripli fondi” anche se non svelati dal primo ascolto, possano comunque risultare intuibili. In sintesi, mi interessa creare oggetti che si rendono disponibili su piani diversi.
Quindi anche a persone diverse…
Certamente, ognuno sceglie il suo piano. Nel lavoro compositivo penso naturalmente a una serie di ascoltatori “ideali”, ma è solo l’inizio di un processo che una volta avviato genera autonomamente sentieri e interpretazioni possibili. L’importante è preservare una onesta autenticità, visto che in un una pagina l’autore getta inevitabilmente se stesso, che lo voglia o no. L’esperienza creativa è per me una vera maternità: alla fine nasce qualcosa che mi assomiglia e che gradualmente -interpretazione dopo interpretazione, esecuzione dopo esecuzione- impara a camminare con le proprie gambe indipendentemente dai miei desideri.
D’altronde credo che ciò valga un po’ per tutti: più si conosce un compositore più ci si accorge come quella determinata persona, essendo così com’è, non poteva che scrivere i pezzi che scrive.
Se riconosciamo una persona nella musica che scrive significa forse che quest’ultima ha il suo stile…
Non è solo una questione di stile né di qualità musicale. Spesso non riesco esplicitare gli elementi di questa comunanza tra la musica e individuo che la crea, eppure la percezione di un filo rosso impalpabile rimane forte.
Tante parole e tanta fatica poi la musica di chi compone può arrivare a chiunque e in momenti qualsiasi della giornata…
Non vale la pena di scandalizzarsi per questo. L’accesso ad un opera dovrebbe essere assolutamente libero, in qualche modo consapevole, ma libero. Amo vivere a Roma, ad esempio, anche perché i ruderi romani offrono un accesso spesso libero e democratico: sia all’intenditore che ne coglie subito il valore storico, sia al turista distratto che ne scopre la bellezza dopo averlo utilizzato fisicamente per sedersi e mangiare un panino.
Sì, ma l’’arte è un prodotto che dà piacere al pubblico mentre crea sofferenza in chi la produce…
Be’ la situazione non è poi così drammatica, altrimenti perché insistere. Certo, c’è un impoverimento fisiologico dell’oggetto nelle varie fasi in cui l’opera attraversa il mercato, e questo sì che crea sofferenza in chi crea. L’universo creato dal compositore è talvolta articolato e complesso ed è talvolta triste vederselo inscatolato nelle poche righe superficiali di una recensione o nei commenti distratti di ascoltatori passivi. Ma è una fase o, se si vuole, un rischio inevitabile. Quando mi accorgo che l’universo creato dalla mia musica riesce a esplodere in qualche modo nella mente di chi l’ascolta allora le sofferenze si annullano e mi rendo conto di fare il più bel mestiere del mondo.
Forse il problema nasce dal fatto che chi compone dà in pasto al pubblico una grande parte di se stesso…
L’’esperienza creativa è per me comunque un’esperienza vitale. In questo senso il comporre è per me un atto beatamente egoistico che nasce dal bisogno di esprimere me stesso. Ovviamente ciò non mi appaga in quanto sfogo creativo, ma solo nella misura in cui la mia espressione entra in contatto e mi connette con il mondo. E in questo connettersi con il mondo non è facile mantenere l’onesta autenticità a cui accennavo prima tra arrivisti ed emarginati cronici.
Lei si occupa da molti anni dei rapporti tra musica e memoria. Come è nato questo interesse?
Sono partito da alcune esperienze personali. Quando sedicenne mi avvicinavo ai primi concerti di musica contemporanea rimanevo spesso assolutamente disorientato, come la maggior parte dei miei coetanei, credo. Poi successe qualcosa. Mi ricordo, durante un saggio di allievi di Donatoni al glorioso auditorium RAI del foro italico, di un brano -non ricordo più di chi- nel quale, fra la fitta e incompresa nebbia di materiali, codici e processi vari, ad un certo punto emergeva un qualcosa che ricordava un tema di una fuga di Bach. Rimasi estremamente colpito dal modo in cui avevo reagito di fronte a questa improvvisa trasformazione semantica del materiale musicale: nel momento in cui avevo percepito il frammento di Bach, che metaforicamente -ma anche nella mia realtà d’ascolto- emergeva dalla nebbia del rimanente materiale, immediatamente l’intero brano mi si rivelava con una profondità prospettica inaspettata; tutto ciò che prima mi arrivava espressivamente schiacciato su di una dimensione piatta e monocroma, acquistava ora colore e visibilità, le nebbie venivano ad essere paradossalmente caratterizzate e chiarite proprio dall’elemento bachiano. L’esperienza rimase un fatto isolato e in parte incompreso fino a quando un amico e compositore, Nicola Bernardini, mi fece sentire il Primo Concerto Grosso per due violini, clavicembalo e pianoforte su nastro magnetico di Schnittke. Schnittke riduceva a brandelli e ricostruiva con leggerezza materiali che oscillavano spudoratamente tra le trame di Ligeti, le cellule motiviche di Vivaldi e il ritmo del tango, con una scrittura per archi estremamente raffinata. Rimasi sconvolto: ciò che più mi colpiva è che ogni nota mi sembrava meravigliosamente necessaria al tutto; un’impressione ben diversa da quella suscitata da altri brani di musica contemporanea. Poco dopo ebbi la prima occasione vera e propria per mettere in pratica qualcosa di ciò che gradualmente stavo maturando con Il gioco delle gabbie per clavicembalo. Ero convinto, con la fermezza dell’inesperienza, che un materiale musicale diciamo così allo stato grezzo non contenesse affatto lo spunto per il suo possibile sviluppo; questo dipendeva invece dalla scelta personale del compositore che, articolandolo, in un modo o nell’altro vi poteva sovrapporre connotazioni anche lontane fra loro.
Da questa tesi era nata una sorta di sfida: ad un canone popolare francese, Vent fin, già di per sé ben connotato, ho sovrapposto tre insiemi di regole che trasformavano il materiale iniziale rispettivamente in una trama musicale atonale quasi bartokiana a forte carattere ritmico, in un materiale vicino al pianismo jazz di Cecyl Taylor e in una serie di gesti clavicembalistici piuttosto tonali nello stile di François Couperin.
L’evoluzione del pezzo è una sorta di possibile comunicazione fra questi tre mondi che di per sé tendevano a configurarsi come tre gabbie nelle quali lasciar cascare, giocando, il materiale musicale di partenza. Tengo ancora molto a questo pezzo anche perché alcune tematiche come ad esempio il senso di imprecisabile stordimento che accompagna il rapido passaggio fra mondi sonori apparentemente diversi e lontani è un’emozione che mi è rimasta molto cara.
Un‘’altra caratteristica della sua musica strumentale è una decisa attenzione alla teatralità dello strumentista…
Sono convinto che un musicista sul palcoscenico sia molto più vicino all’attore di quanto comunemente non si pensi. Questa considerazione è alla base di almeno due lavori per strumenti a fiato. Il primo è un quintetto a fiati quasi alla Kagel, intitolato emblematicamente Atto unico all’interno del quale la diversità di timbro fra gli strumenti -già di per sé molto evidente- facilità la creazione di uno scenario surreale in cui si muovono, musicalmente e fisicamente, cinque strumentisti-attori.
L’altro è Il Metagramma, per un organico di undici strumenti con l’oboe concertante, scritto durante il primo anno di perfezionamento all’Accademia di Santa Cecilia con Franco Donatoni. Il metagramma è un gioco nel quale si ottengono parole differenti sostituendo soltanto una vocale. Il mio metagramma voleva essere una pantomima in cui l’oboe si dibatteva tra piccole sostituzioni che repentinamente e instabilmente spostavano l’attenzione dell’ascoltatore dall’esotismo di Caravan di Duke Ellington a quello di maniera della Shéhérazade di Rimskij-Korsakov, dal languore del valzer dei Fiori da Il lago dei cigni di Caikovskij alla grinta di Smoke on the water dei Deep Purple.
Credo che i collegamenti tra questi frammenti vengano attivati inconsciamente…
Sta di fatto che notavo divertito come all’estrema distanza semantica tra i frammenti si contrapponesse la loro estrema prossimità strutturale: tutti i frammenti erano difatti caratterizzati da un comune scheletro melodico di quarta discendente e terza minore ascendente. La distanza stilistica mi permetteva di approfondire il senso di stordimento che avevo già sperimentato nel Gioco delle Gabbie , mentre il loro codice genetico comune rendeva possibile e percepibile un articolato gioco di assolvenze e dissolvenze. Il tutto era controllato dalle mie esigenze espressive che a quell’epoca erano decisamente influenzate dalle teorie della luce e della materia acutamente descritte da Richard Feynman in Qed (ed. Biblioteca Scientifica di Adelphi). Un altro mondo di stimoli rispetto all’interesse per la memoria, ma come dicevo l’universo concettuale che sta dietro ad un mio lavoro è spesso piuttosto complesso e articolato su più livelli.
Come si è evoluto il suo pensiero compositivo nel tempo?
Negli anni successivi mi sono posto l’obiettivo, quasi didattico, di mettere alla prova alcuni degli artifici compositivi che avevo elaborato nel Metagramma. E’ per esempio il caso di una serie di brani per strumento solista che ho intitolato Tracce. Tracce II per fagotto e Tracce III per clarinetto basso sono quasi degli studi sui possibili modi di interpolazione melodica tra frammenti appartenenti a mondi stilistici molto diversi fra loro, ma sempre legati da codici genetici comuni. Altre tracce per clarinetto solo, sviluppa invece l’idea dello sdoppiamento su più livelli: lo sdoppiamento di un attore-esecutore che tenta di seguire le pulsioni emotive di più personaggi, ma anche lo sdoppiamento percettivo che emerge da una apparente polifonia melodica e metrica resa efficace dall’uso di frammenti dotati di connotazioni molto differenziate. Nella sezione centrale del pezzo, ad esempio, sul fondo di un multifonico si deposita una trillo microtonale che si espande fino a diventare tremolo; lo stesso tremolo viene quindi articolato secondo una polifonia di due metri diversi. Infine alla differenziazione metrica si aggiunge la differenziazione semantica: la voce superiore del tremolo presenta il tema della Seguidilla dalla Carmen di Bizet mentre -in modo apparentemente contemporaneo- la voce inferiore scandisce il celebre tema de Il Barbiere di Siviglia. Il risultato in una sala leggermente riverberata è entusiasmante: chiudendo gli occhi diventa difficile non sentire due clarinetti!
La polifonia apparente era usata già con Bach…
Bach sfruttava esclusivamente la discontinuità: i salti tra registri differenti. La mia falsa polifonia è caratterizzata invece da una polifonia di “memorie” diverse e apparentemente contemporanee che marcano la separazione fra le due linee virtuali.
Ma non è solo questa la cifra del pezzo: lo sdoppiamento è vissuto anche dallo strumentista, vittima di una schizofrenia espressiva e drammaturgica tra unione e separazione.
Forse è vissuta anche da chi la sente…
Credo di sì. L’opposizione dialettica di più voci virtuali è presentata come il risultato di un doloroso processo di scissione iniziale. La conquista di una autonomia fra le due voci virtuali è quindi vissuta con crescente leggerezza dallo strumentista-protagonista. Ma alla fisica non si comanda e così lo sforzo per mantenere la falsa polifonia si fa sempre più sentito fino a che le due voci esauste si richiudono in un unico e disperato trillo sovracuto.
La ricerca di una polifonia di memorie è un’operazione piuttosto diversa rispetto all’uso neoclassico o neoromantico della citazione. Nel primo caso la citazione rimandava alla necessità di un contatto con un mondo passato e perduto. Nel mio caso invece si tratta di gettarsi “di pancia” nella giungla di simboli che oggi ci circonda negando confini inutili per disegnare paesaggi surreali. In ciò sta una delle principali differenza fra un uso neoclassico e uno, semmai, postmoderno della memoria.
Perché allora c’era meno caos a livello di comunicazione..
Sì e di conseguenza si poteva mirare a una appropriazione cannibalica del passato. Lo Stravinskij che riutilizza gli stilemi barocchi o l’incipit della Quinta Sinfonia di Beethoven in un certo senso fagocita completamente l’identità stilistica di ciò che cita. La dialettica di molti miei lavori si articola intorno alla dissonanza incolmabile fra diverse identità stilistiche, intorno ad un’opposizione di simboli. In Stravinskij gli spigoli appuntiti che emergono nell’utilizzo di materiali musicali del passato sono arrotondati e risolti, uniformati senza troppi complimenti dalle sue zampate compositive.
E‘ geloso della sua musica quando la affida agli altri?
Geloso no. Mi considero assolutamente e tranquillamente dentro il meraviglioso circolo ermeneutico che definisce la musica: il compositore, l’interprete, il pubblico, la società.
Ho avuto certo la fortuna di lavorare con interpreti davvero sensibili e intelligenti che compensano ampiamente le avventure-disavventure di alcuni concerti. Con Nathalie Chabot, solista della prima esecuzione di Finzioni per violino ed elettronica realizzato all’IRCAM nel 1991, ricordo di aver assistito per la prima volta a una prova in cui a stento avevo suggerimenti da aggiungere. Esperienze simili si sono ripetute con clarinettisti come Roberta Gottardi per Altre Tracce e Guido Arbonelli per Tracce III o con il chitarrista Massimo Laura, per il quale ho scritto Concertino per chitarra e orchestra. In questi casi è un piacere e un grande arricchimento ascoltare i loro suggerimenti su come ottimizzare la resa espressiva del brano.
Il suo rapporto costante con la musica elettronica ha influenzato il modo di affrontare la composizione?
Ha indubbiamente influenzato il mio modo di comporre per strumenti acustici. Essendo stato un intrepido rockettaro in gioventù, ho iniziato lo studio della musica elettronica al Conservatorio di Santa Cecilia quando già avevo acquisito una certa esperienza con i sintetizzatori. Per il diploma presentai un breve lavoro per nastro, Punti da un secondo, nel quale mettevo in pratica alcune idee sull’organizzazione di sistemi microtonali. Le esperienze più importanti si sono svolte comunque in seguito, nell’anno passato all’IRCAM di Parigi grazie a una borsa di studio e nel 1995 all’EMS di Stoccolma. In quegli stessi anni ho fondato insieme a Luigi Ceccarelli e Alessandro Cipriani l’Edison Studio, che oggi è riconosciuto come uno dei più attivi centri di musica elettronica in Italia. Attraverso queste esperienze la tecnologia musicale e il pensiero che la sostiene hanno progressivamente e profondamente influenzato sia le mie idee sulla musica, sia gli strumenti reali e concettuali che quotidianamente utilizzo.
ARTICOLI E SAGGI
1985 “Applicazioni dell’elaboratore nell’analisi dei livelli di tensione intervallare”
in Atti del “VI Colloquio di Informatica Musicale” in Musica e Tecnologia UNICOPLI ed., Milano
1986 “The organization of microtonal sets”
in Atti del “Internet. Computer Music Conference” Computer Music Ass., San Francisco-California
1987 “Il disco e la musica elettronica”
in Notiziario dell’Archivio Sonoro della Musica Contemporanea, II, n° 6, Ist. di Ricerca per il Teatro Musicale (I.R.TE.M.), Roma.
1988 “Computer applications in the analysis of microtonal systems”
in Atti del convegno su “Computers in Music Research”, Centre for Research into the Applications of Computer to Music, University of Lancaster – England
1988 “La Musica Americana nella serie antologica della CRI”
in Notiziario dell’Archivio Sonoro della Musica Contemporanea, IV, n° 1-2, Istituto di Ricerca per il Teatro Musicale (I.R.TE.M.), Roma.
1989 “Un algoritmo veloce per il calcolo della dissonanza e l’analisi intervallare”
in Atti del VIII Colloquio d’Informatica Musicale, Festival SPAZIOMUSICA89, Cagliari.
1989 “I Quartetti di A. Berg” in Notiziario dell’Archivio Sonoro della Musica Contemporanea, Istituto di Ricerca per il Teatro Musicale (I.R.TE.M.), Roma.
1990 “La musica Australiana” in Notiziario dell’Archivio Sonoro della Musica Contemporanea, Istituto di Ricerca per il Teatro Musicale (I.R.TE.M.), Roma.
1994 “Liuteria digitale e memoria sonora comune (avvisi ai naviganti)” in Atti del convegno “La terra Fertile. I° incontro nazionale di Musica Elettronica”, L’Aquila
1994-96 “Sentieri convergenti? Musica e memoria ai limiti della costellazione postmoderna” in Atti del convegno “Cambiare Musica”, Nuova Consonanza – Goethe Institut, Roma Ed. LIM, Milano
1995 “In Harley Davidson, verso le nuove musiche”, in SuonoSud, primavera 1995, ed. ISMEZ, Roma, pp. 39-43
1997 “Retrieving Long Term Memory traces in contemporary music listening: a composer view” in Atti della Third International ESCOM Conference, Uppsala – Sweden
1998 “La connotazione dell’evento sonoro: un parametro musicale ?” in Psicologia Cognitiva e Composizione musicale: intersezioni e prospettive comuni a cura di Rosalia Di Matteo, ed. Kappa, Roma