Franco Mannino mi ha accolto nella sua casa romana con una galanteria d’altri tempi e scusandosi per i pochi minuti di ritardo con i quali si era presentato. Parlare con lui è stato come fare un salto nel passato…
La sua vita è come un mosaico all’interno del quale sono presenti i più grandi uomini di cultura del Novecento… Che significato ha avuto il contatto con queste personalità?
Ho sempre amato essere in contatto con persone più grandi di me, non solo di età, ma anche dal punto di vista della ricchezza culturale, e devo dire che sono stato molto influenzato dall’incontro con questi grandi personaggi.
Non si può neanche immaginare l’atmosfera di Roma negli anni Quaranta e Cinquanta, nonostante la guerra che è stata una esperienza terribile. Le abitazioni di Tullio Serafin, Bernardino Molinari e Alfredo Casella, rappresentavano il luogo d’incontro di tutti i più grandi artisti, non solo musicisti, ma anche pittori, scultori, scrittori. La domenica c’era il matiné: l’opera cominciava alle tre del pomeriggio e quando era terminato lo spettacolo ci si ritrovava in queste case, che erano aperte soprattutto ai giovani; si respirava un’atmosfera veramente incredibile. A soli 16 anni mi capitava, durante queste occasioni, di girarmi e incontrare Stravinskij o Hindemith. Questa era la vita culturale di Roma, veramente fantastica.
Quale è stata, dal suo punto di vista, l’evoluzione del mondo musicale dai suoi esordi sino ad oggi?
In questi ultimi cinquant’anni, i cambiamenti sono avvenuti in modo molto rapido. La differenza che c’è tra noi e i nostri padri o i nostri nonni non è la stessa che passa tra i giovani di oggi e i loro genitori. E’ successo tutto improvvisamente: adesso in dieci ore si va in America o in qualsiasi altra parte del mondo; questa facilità negli spostamenti ha procurato naturalmente delle conseguenze, specialmente nella musica e nelle arti in genere; in primo luogo una grossa confusione: quaranta o cinquanta anni fa, accendendo la radio si poteva tranquillamente capire, senza essere un musicista, da dove provenisse la musica, se all’America, dal Giappone o dall’Italia, perché aveva delle caratteristiche ben precise che la rendevano subito riconoscibile. Adesso se si ascolta la radio, pur essendo musicisti, addirittura addetti ai lavori, non si può dire se si sta ascoltando un nuovo lavoro di un compositore giapponese o di un italiano, perché si è persa la matrice che un tempo differenziava le culture nel mondo.
Ritengo che questo sia oggi il problema più grave. Non ne voglio dare la colpa a nessuno, perché è una situazione generale che ovviamente molto diversa rispetto al passato. Cambia tutto e di continuo, non si fa in tempo neanche a comprare un computer che si deve già cambiare con il modello successivo.
Penso che la nuova generazione, comunque, sia migliore della nostra: trovo i giovani molto più sinceri, più spontanei. L’unico pericolo è quello di cui parlavo prima: la mancanza di personalità dovuta all’assenza di una solida cultura di riferimento. Credo che i giovani debbano assolutamente cercare una propria identità.
Ricordo con moltissimo piacere quando René Leibowitz, grande musicologo e grande amico, scrisse le note di copertina di un disco nel quale erano incise le mie prime due sonate per pianoforte. Leibowitz affermò che erano passati venticinque anni tra la prima e la seconda sonata e che erano completamente differenti concettualmente: la prima era tonale, la seconda seriale; per finire il suo commento scrisse che, comunque, il marchio di Mannino si riconosceva sempre.
Far risaltare la propria personalità è veramente importante. Ai giovani ripeto sempre di cercare in ogni modo di essere se stessi: è fondamentale non preoccuparsi di quello che potranno pensare gli altri, agli ascoltatori. Solo partendo da questo principio, anche con tutte le difficoltà che comporta, si raggiungono mete soddisfacenti.

Pensa che l’esordio di un giovane musicista di oggi sia diverso da quello vissuto da lei?
Rispetto a quando venni a studiare a Roma la produzione artistica è aumentata in modo quasi spropositato, non solo quella musicale ma anche quella letteraria. Sono aumentati i concerti, gli spettacoli in generale, i libri, per non parlare poi dei dischi…
Quello che trovo assurdo è che, invece, non sono aumentate proporzionalmente le possibilità per i giovani, che invece sono minori rispetto a quelle che avevamo noi quando si faceva un solo concerto la settimana e quasi nessun disco, tranne qualche raro caso.
Questo è molto grave e grottesco: i giovani avevano più possibilità di emergere in passato quando la produzione era inferiore a quella di oggi.
Ci parli della sua esperienza americana…
Ho trascorso molto del mio tempo all’estero, ricoprendo posti importanti. Un incarico molto prestigioso fu quello assegnatomi a Ottawa, dove collaboravo con il National Art Center, all’interno del quale tutte le arti, non solo la musica, erano prodotte dal governo direttamente e non tramite sovvenzioni, come invece avviene in Italia. Per sette anni il governo canadese mi affidò l’organizzazione musicale, spremendomi come un limone, ma lasciandomi la totale libertà di fare ciò che volevo. In America è così: si è liberi di fare ciò che si desidera, ma se non si produce bene si viene mandati via.
Nonostante il prestigioso incarico che ricoprivo e Ottawa, ad un certo punto, però, ho deciso di abbandonarlo, perché ero impegnato con la mia attività in tutto il mondo ed era molto pesante viaggiare continuamente (due volte al mese) tra Europa e America. Il giorno dopo le mie dimissioni, sul giornale più importante della città canadese scrissero che avevo lasciato l’incarico e che il governo, memore e grato del grande apporto culturale che avevo dato alla città, indiceva un festival in mio onore.
Per sei mesi consecutivi, infatti, si svolse nella città il “Mannino Festival” che per me è stata una testimonianza di stima veramente straordinaria. In Italia il riconoscimento alla mia carriera è una targa al foyer del Teatro dell’Opera di Roma, di fronte al busto di Giuseppe Verdi.
Nel 1991 ha deciso di abbandonare le sue attività per riprendere a studiare…
Per me è molto importante continuare a studiare ed essere sempre alla ricerca di qualcosa, che si può trovare in noi stessi, oppure nella musica, nei libri, ovunque. Ho abbandonato i miei impegni di lavoro per dedicarmi a tutto ciò, che mi riempie la vita e non mi lascia il tempo di poterne vedere i lati negativi.
Quali sono ora i suoi interessi?
Ho deciso di concentrarmi su quello che veramente mi coinvolge. Continuo le mie battaglie per i giovani, purtroppo con poca fortuna -e questo mi intristisce- perché ho riscontrato da parte loro poca partecipazione, mentre ci vorrebbe una maggiore collaborazione. Faccio di tutto per combattere la burocrazia e i fenomeni assurdi dei quali tutti sono all’oscuro; per questo motivo attualmente ho in corso 39 cause. Nessuno, per esempio, è a conoscenza del diritto connesso, in base al quale se viene trasmessa una composizione l’autore deve essere pagato. Invece questi diritti non vengono mai retribuiti. Quando ci sono troppi soldi in giro è difficile tenerli sotto controllo. Nessun musicista, per esempio, è a conoscenza della Imaie, una società che i sindacati hanno fondato per gli artisti senza preoccuparsi di informare questi ultimi.
Prima di lasciare la Sicilia Luigi Pirandello le augurò di poterne sempre sentire il profumo. E’ stato così?
Sono molto legato alla Sicilia, perché ha qualcosa di magico, un’atmosfera particolare che mi ha ispirato un romanzo dal titolo Amuri (pubblicato da Bompiani n.d.r.).
Poco tempo fa sono stato per un mese intero a Palermo per dirigere l’EAOSS al concerto inaugurale del Teatro Massimo che ha riaperto dopo molti anni di inattività. Ho inoltre diretto l’orchestra siciliana per altri sei concerti durante i quali, escludendo la Settima Sinfonia di Beethoven, sono state eseguite solo musiche italiane, e questo mi ha fato molto piacere, perché adesso si sta perdendo anche questa abitudine. La serata di inaugurazione del Teatro Massimo è stata veramente emozionante perché sono stato un protagonista, uno dei sopravvissuti, di questo teatro, con il quale ho lavorato più di cinquanta anni. Un ricordo molto bello legato al Massimo è quello dell’opera Il Diavolo in Giardino scritta insieme a Luchino Visconti: uno spettacolo incredibile. Poco tempo prima di morire Visconti rilasciò un’intervista affermando che lo spettacolo più fantastico che avesse messo in scena era proprio Il Diavolo in giardino per il Teatro Massimo.
La frase di Pirandello mi è rimasta impressa e l’ho sempre portata come me, anche se quando l’ho conosciuto era il 1934, avevo solo dieci anni. Era il 1934, poco tempo dopo fu assegnato al grande scrittore il premio Nobel. Nel meridione, quando si festeggia un avvenimento importante, in genere si coinvolge sempre anche un bambino. Per festeggiare Pirandello chiesero al direttore del conservatorio, Antonio Savasta, di inviare un giovane musicista che suonasse davanti al grande scrittore e lui scelse me.
Dalla carriera di pianista è passato a quella di compositore e di direttore d’orchestra. Crede che siano solo diverse sfaccettature dell’essere musicista?
Non c’è ombra di dubbio… Solo con il passare del tempo mi sono accorto che, in realtà, sono attività nate insieme e che ho svolto contemporaneamente; molte composizioni pubblicate successivamente, in effetti, le avevo scritte dagli 8 ai 12 anni.
Ho esordito come pianista nel 1940, a sedici anni. Nel ’46 partii per la prima tournée in Nordamerica, con un contratto che mi aveva procurato un impresario, consigliatomi da Toscanini, che aveva scritturato tutti i grandi musicisti europei, tra i quali Furtwangler e Gieseging. Arrivato in America non mi fecero passare la dogana, l’impresario fallì e saltarono tutti i miei concerti. La maggior parte dell’anno era occupata dalla tournée americana che non aveva lasciato spazio a nessun altro impegno, così mi ritrovai senza poter far nulla; fortunatamente trovai un amico, un produttore e distributore, che mi consigliò di occuparmi di musica da film; da quel momento le colonne sonore diventarono il mio forte, sino ad avere quasi tutta la cinematografia nelle mie mani. Successivamente mi fu chiesto anche di dirigere l’Orchestra della RAI in un concerto presso il Parco dei Daini a Roma, durante il quale suonavo anche il pianoforte; da quel momento è iniziata anche la carriera di direttore. Poi sono anche diventato scrittore, direttore artistico, scopritore di talenti… Ho voluto anche dimostrare che si possono creare degli spettacoli senza avere i soldi dallo Stato e soprattutto senza dover fallire. E ha funzionato. Mettendo in piedi una società (che non riceveva soldi dallo Stato), mi sono occupato di tutto: della musica, delle scene, della storia, organizzando sino all’inverosimile. Successivamente ho venduto gli spettacoli e sono anche riuscito a guadagnarci. Capisco che un Ente Lirico per fare quello stesso spettacolo avrebbe dovuto spendere trenta volte di più, ma mi sono levato una grande soddisfazione.

Come si è avvicinato al teatro lirico?
E’ stato molto importante l’incontro con Toscanini, che mi ha fatto amare tutta la musica, ma soprattutto la collaborazione con il più grande organizzatore dell’opera lirica, Tullio Serafin, del quale diventai assistente, che mi affidò la direzione di moltissime opere.
Nel suo libro intitolato L’Arca di casa mia lei accosta episodi della vita musicale del Novecento alla presenza di strani animali che sembrano invadere la sua abitazione. Come nasce questa passione?
L’amore per gli animali non è partito da me ma da mia moglie Uberta, che ama gli animali più delle persone. Io ho dovuto di conseguenza decidere se rimanere con lei, e quindi subire la presenza degli animali, oppure lasciarla. Quando è nata mia figlia la situazione è peggiorata perché lei è più esagerata di sua madre, e i miei nipoti lo sono ancora di più. Non si può neanche immaginare cosa può essere la mia casa… Ho impiegato tutta una vita per costruirmi un ambiente che ora è pieno di animali di tutti i generi. Adesso siamo invasi da piccoli topini che si moltiplicano a vista d’occhio…
La cosa strana è che gli animali, che la mia famiglia ama così smodatamente, vengono a stare sempre vicino a me. Ovviamente li ho legati alla mia vita, soprattutto a quella musicale…
… e per questo motivo ha definito il genio un misto tra un bambino e un animaletto…
E’ quasi sempre così. Uno dei primi geni che ho conosciuto è stato Franco Ferrara. Quando vivevo con lui a Roma ero molto incuriosito da quali libri leggesse. In realtà scoprii che le sue uniche letture erano Il Corriere dei Piccoli e Topolino. Mi ricordo che una volta chiese alla giornalaia vicino casa un Topolino e, sfogliandolo, le disse che il figlio lo aveva già letto; lei non credette assolutamente alle sue parole e rispose che in realtà sapeva benissimo che i giornaletti li leggeva lui e non suo figlio.
Einstein aveva uno sguardo, degli occhi e dei capelli che lo facevano sembrare un cane. L’unico genio che non corrispondeva a questa mia definizione era Thomas Mann: aveva l’aria di un capo ufficio della direzione generale della posta, un aspetto assolutamente normale, che però nascondeva un artista geniale. Tutta la sua famiglia, invece, che ho conosciuto molto bene, era veramente assurda, totalmente al di fuori della norma. La mia più grande amica è sua figlia Elisabeth Mann Borgese, che ha curato le prefazioni di Geni e dell’Arca di Casa mia. Quando era giovane, tornando in casa sua, trovò sulla scrivania del padre un libro che ancora non era stato aperto; era un volume di Borgese, critico e scrittore di cultura tedesca. Lesse il volume e decise che voleva assolutamente sposare l’autore. Così, senza averlo mai visto, partì per cercarlo e, nonostante la grande differenza di età si sposarono veramente.
Ci racconti come è nata l’idea di scrivere delle favole sugli strumenti musicali…
Il progetto di queste favole sugli strumenti era nato come una raccolta da pubblicare in fascicoli che sarebbero andatati in edicola; insieme alla favola era prevista una sceneggiatura con esempi musicali. Si doveva trattare di una specie di storia degli strumenti musicali con un racconto, una famiglia di strumenti per ogni fascicolo. Secondo me era una idea molto interessante soprattutto per fare avvicinare i ragazzi alla musica. Il flauto era stato ideato insieme a Severino Gazzelloni, che si era dimostrato entusiasta dell’idea di accompagnare le favole con una intervista ad un musicista. Successivamente il progetto dei fascicoli nelle edicole fu abbandonato per problemi legati ad altre uscite simili da parte di un’altra casa editrice. Le favole saranno pubblicate il prossimo anno dalla casa editrice LIM.