L’intervista con Ivan Fedele è avvenuta a Firenze, città che amo molto…
Nelle sue opere lei fa spesso riferimento all’eco e alle risonanze. Ci vuole parlare di questa caratteristica del suo stile compositivo e di come nasce?
Un primo concetto di risonanza è fisico: nella famiglia delle risonanze ci sono i riverberi, gli echi, vari modi attraverso i quali il suono lascia una traccia, nel tempo e nello spazio. Un altro concetto di risonanza è psicologico: qualcosa vibra per simpatia; qualcosa risuona in noi perché abbiamo pizzicato una corda che è dentro di noi e che è sollecitata da un evento esterno, magari inatteso.
Penso che questa sorpresa sia una magia che la musica dovrebbe riservare a chi ascolta. Per me l’attenzione data all’aspetto percettivo è fondamentale: l’ascoltatore inteso non tanto come categoria sociologica, ma come essere umano con caratteristiche cognitive e di percezione psicoacustica ben precise, è colui che si dà un’idea del tempo e se lo rappresenta in un certo modo. La musica è l’arte di articolare il tempo dandogli forma. Allora i richiami a ciò che è stato e la ridondanza -la ripetizione più o meno variata degli elementi musicali- costituiscono quel “teatro della memoria” in cui le forme si danno forma.
Questo è fondamentale anche dal punto di vista linguistico. Si parla sempre della relazione tra il linguaggio parlato e linguaggio musicale; la musica condivide con il linguaggio alcuni aspetti, ma altri -altrettanto importanti, direi quasi radicalmente diversi- non li condivide affatto. Il linguaggio parlato mette in relazione due mondi: il mondo del significante e il mondo del significato, la parola e l’esperienza. In musica questa relazione tra il mondo dei significanti e il mondo dell’esperienza non c’è: l’intervallo do-mi non rimanda a nessun’altra esperienza che non sia quella di do-mi. Ecco perché si dice che la musica è autoreferenziale. Il linguaggio non è autoreferenziale; se dico sedia faccio riferimento a un’esperienza che suppongo condivisa. Una esperienza di due tipi: linguistica (se lei fosse giapponese non lo capirebbe) e pratica (entrambi abbiamo fatto l’esperienza della sedia). Su queste basi si fonda il fatto che noi possiamo comunicare; e per me un dato fondamentale è che la musica debba comunicare.
Cosa comunica, allora la musica, e su quali basi?
Credo che la musica debba comunicare emozione, attraverso percorsi narrativi che possano portarci da un luogo ad un altro dell’immaginazione, attraverso determinati passaggi. Per me questa narratività della musica è fondamentale e distingue un’opera articolata da un lavoro di tipo meccanico. Non riesco a concepire la musica in modo diverso.
Un esempio di questo percorso?
Se all’inizio della composizione utilizzo delle figure musicali che hanno delle caratteristiche ben precise, queste assumeranno via via una connotazione semantica più forte, a seconda di quanto e di come vengono ripetute. Per questo tipo di discorso gioca un ruolo importante il fatto che queste figure vengano associate ad altre figure.
Se inizio la composizione con l’attacco di uno strumento seguito da una risonanza in crescendo, ho stabilito una associazione di idee. Se ad ogni attacco dò una risonanza in crescendo ecco che nella mente dell’ascoltatore comincia a crearsi un piccolo vocabolario, un lessico, quasi una regola sintattica.
Dopo che questa regola è stata assimilata come tale, ecco che interviene l’atto poetico, che non si limita ad associare due o più elementi; ti fa cambiare l’ordine degli eventi. Allora, ad esempio, ci potrà essere un risonanza seguita da un attacco: il contrario di ciò che è accaduto prima.
I primi momenti della composizione musicale sono fondamentali, perché sono quelli in cui si stabilisce il vocabolario, il lessico, le regole, la sintassi. Ecco perché il concetto psicologico di risonanza è fondamentale in questo senso: se si scrivesse un pezzo all’interno del quale apparissero solo degli apax (così i latini chiamavano le parole che compaiono una sola volta nella letteratura di un popolo), non avremmo punti di riferimento per costruire.
Evidentemente se si ripetono delle figure a discapito di altre, dandogli profondità diverse, si sottolinea l’importanza discorsiva di un elemento e si dà ad altri un ruolo di interpunzione. Dopo si può giocare di prospettiva, si può far venire più prossimi all’ascolto quegli elementi che erano meno sviluppati, se ne possono far scomparire altri, e così via.
Il concetto di risonanza, il richiamo nella memoria a diversi elementi secondo i diversi percorsi che hanno subito, è fondamentale per la ricreazione della forma.
Per lei la forma sembra avere molta importanza…
Sì, e non esiste soltanto sulla partitura; la forma prende forma nella rappresentazione di chi ascolta. A me interessa il pubblico in quanto soggetto che può cogliere la forma. Faccio di tutto perché l’uomo fisiologico e le sue potenzialità percettive possano avere più punti di riferimento per ricostruire una forma, per ricostruire un percorso. Quindi, ridondanza -come strumento tecnico- e percorso per me sono due scelte di campo fondamentali.
Cosa pensa, allora, dell’Avanguardia che invece non si è interessata a questo tipo di discorso?
Credo che fosse necessaria. Credo che le epoche storiche ed estetiche abbiano bisogno di momenti di azzeramento che servono all’adeguamento dei linguaggi alle nuove necessità poetiche. Le rivoluzioni non durano in eterno, non sono momenti soltanto distruttivi, ma anche risolutivi di una logica e preludono alla costruzione di altre logiche. Nella storia dell’arte alcuni sconvolgimenti risultano salutari.
In effetti la vera rivoluzione, la vera radicalizzazione del problema, nel campo compositivo, non l’abbiamo avuta con la seconda scuola di Vienna, ma con il serialismo integrale del secondo Dopoguerra. Schönberg, Webern Berg, infatti, pur basandosi su un sistema dodecafonico, pur privando del loro ruolo e della loro importanza gerarchica la tonalità e alcuni gradi della tonalità, pur defunzionalizzando le funzioni armoniche, hanno creato sorta una tonalità al negativo.
Negando la tonalità, però, si prende in considerazione alcuni aspetti…
Sì, resta il gesto, infatti, che è tardo romantico, come i grandi crescendo o le agogiche enfatizzate. L’espressionismo ha ancora tensioni interne di questa natura.
D’altra parte penso che la radicalizzazione del serialismo integrale ci abbia condotti in un vicolo cieco.
Nel suo libro Linguaggio, musica, poesia (Einaudi), Nicolas Ruwet fa una considerazione molto interessante; egli osserva che una composizione seriale, costruita con regole ben precise, e un’altra aleatoria, che affida al caso la propria genesi, presentano all’ascolto caratteristiche analoghe, poiché analogo è il livello di entropia di entrambe. Che alla base della composizione ci sia una tecnica articolata o l’alea, la differenza può non essere così evidente.
Non è un caso che i più grandi musicisti che sono passati attraverso l’esperienza dell’Avanguardia abbiano recuperato il concetto di gerarchia e una sorta di equidistanza tra consonante e dissonante e li abbiano sintetizzati ad un livello superiore. Faccio riferimento a Berio (con Sinfonia) e a Boulez (con Pli selon pli) che hanno ricominciato a percorrere la strada che si offre alla percezione; quella strada che ha bisogno della percezione, così come determinata nel nostro codice genetico, perché si dia una possibilità anche all’emozione.
Se scindiamo la forma dalla materia attraverso la quale questa forma si crea, cadiamo in una trappola micidiale. Faccio sempre un esempio ai miei allievi. Se ascoltiamo il primo tempo di una sonata di Beethoven ci rendiamo conto che è perfetto nelle sue proporzioni, che la forma funziona. Se la forma funziona all’ascolto dovrebbe funzionare anche sulla carta; così se pantografiamo per dieci la stessa forma vediamo che le proporzioni, sulla carta, restano le stesse. Crede che all’ascolto avremmo la sensazione della stessa perfezione, della stessa rotondità e riuscita formale? No, perché noi possiamo ritenere informazioni fino a un certo punto, dopo di che abbiamo bisogno di conferme di quello che è stato prima. La forma, sulla carta e in sé, non è sufficiente, neanche in un compositore classico. Questo paradosso lo dimostra.
La forma ha bisogno di realizzarsi nei tempi, nei quali noi esseri umani possiamo percepirla. E, per quanto ciascuno di noi sia diverso, ci sono delle categorie comuni.
Cosa pensa, allora, della musica Giapponese, per esempio, così diversa dalla nostra?
La cultura incide in maniera decisiva per quanto riguarda la percezione del tempo. Gli orientali passano con estrema facilità da una dimensione temporale ad un’altra, da un tempo mobile ad un tempo immobile. La musica occidentale, invece, è una musica che nella sua storia ha privilegiato il concetto di sviluppo del materiale.
La nostra è una visione narrativa, centrifuga, quella orientale è riflessiva. La musica orientale, infatti, è spesso legata a forme di meditazione, oppure a forme di tipo molto particolare ed estremamente simbolico come quella del teatro Nô, ad esempio, dove il tempo dell’azione è molto più lento, direi quasi analitico.
Noto comunque che fanno molta meno fatica gli orientali a entrare nella cultura occidentale di quanto gli occidentali non facciano rispetto a quella orientale. Gli occidentali sembrano avvicinarsi più facilmente, ma in realtà si limitano spesso a consumare, a vivere superficialmente le altre culture.
Si parla tanto di contaminazioni. Tranne rari casi, io ho trovato solo sovrapposizioni; giustapposizioni. La vera contaminazione ha luogo quando si può realmente integrare in sé culture differenti. Il che richiede tempo e la possibilità di vivere per lunghi periodi nei luoghi in cui le culture hanno le loro radici.
Che importanza hanno avuto i suoi insegnanti per la formazione delle idee che ha ora?
Gli insegnanti sono stati molto importanti, soprattutto per quanto riguarda l’apprendimento dell’artigianato: ho imparato a governare la materia.
Le riflessioni sul tempo e sullo spazio sono venute fuori dai miei studi giovanili di filosofia all’Università di Milano; ricordo le lezioni di Paci, di Geymonat, personaggi che mi hanno fatto riflettere sul linguaggio, sull’aspetto epistemologico della rappresentazione cognitiva, sulla relazione tra significato e significante. Ho sempre cercato di ricreare le stesse condizioni in ambito musicale e di capire come, da compositore, potessi servirmi di tutto questo per dare forma alla mia immaginazione. Struttura e libertà, spesso considerate a torto antitetiche, sono sempre state al centro della mia attenzione e figurano come elementi complementari e imprescindibili l’uno dall’altro della mia musica.
E per quanto riguarda la ricerca musicale quali sono state le esperienze importanti per la sua formazione?
Sono state molto importanti le esperienze che ho fatto all’Ircam, agli inizi degli anni Novanta. A quell’epoca risalgono le mie prime composizioni frutto di una riflessione più consapevole sulla forma (spazio virtuale, teatro della memoria) e sullo spazio (lo spazio reale, fisico) inteso come luogo della drammatizzazione del suono. Una esperienze fondamentale, in particolare, è stata l’incontro con McAdams, acutissimo studioso di psicoacustica, che lavora tuttora come ricercatore all’Ircam.
In un altro modo sono spesso state grandi maestri le partiture di altri compositori: schegge di luce, illuminazioni.
Quali?
Quelle dei grandi compositori del nostro tempo, naturalmente. Su tutti Berio e Ligeti. Recentemente le musiche di Gerard Grisey; in particolare il ciclo Les espaces acoustiques, il cui senso è chiaro già dal titolo. Con Les espaces acoustiques Grisey sviluppa un’estetica dello spazio attraverso la tecnica spettralista. Alla base di questa estetica c’è una concezione dello spazio in quanto dimensione espansiva, dinamica, che da un centro si diffonde a macchia d’olio verso la periferia: la dinamica della diffusione del suono, oltre che della sua struttura interna, diventa metafora formale.
Come si pensa una musica nello spazio?
Pensare una musica nello spazio non vuol dire pensare a una dimensione accessoria della musica. Vuol dire concepire sin dall’inizio della composizione la dimensione spaziale come un elemento decisivo.
Se metto un clarinetto e un oboe accanto e faccio passare una frase da uno strumento all’altro, la mia percezione sarà quella di una figura musicale che muta di timbro ma proviene sempre dallo stesso punto, poiché i due strumenti sono vicini. Se metto il clarinetto in un angolo e l’oboe in un altro, insieme a una modulazione timbrica si percepirà anche uno spostamento della sorgente sonora. Oltre a una polifonia di parti, quindi, c’è una polifonia spaziale, di percorsi: lo spazio è attraversato da tracce che descrivono una polifonia di percorso.
Anche nella musica antica era presente questa attenzione allo spazio…
Sì, i responsori, per esempio, sono un archetipo formale di riferimento in cui lo spazio con il singolo di fronte all’assemblea- gioca un ruolo drammaturgico di primaria importanza, non solo estetico. Nei responsori è presente una componente rituale molto forte: dove c’è rito c’è gerarchia e quindi separazione, dove c’è separazione c’è localizzazione dello spazio, e dove c’è localizzazione c’è differenza di provenienza delle fonti. La spazializzazione del suono è un archetipo espressivo molto forte.
Oggi, spesso la spazializzazione è un’operazione a posteriori e di semplice dislocamento delle fonti sonore, invece di essere una categoria formativa della musica. In Flamen per quintetto a fiati, per esempio, non ho scritto la musica e poi disgregato un ensemble, ma ho creato delle relazioni spaziali sin dalla prima battuta. In questo pezzo ci sono diversi tipi di localizzazione del suono: movimenti semicircolari, individuazioni di un triangolo, un gioco stereofonico tra flauto e clarinetto prima e tra oboe e fagotto poi. Le geometrie sono pensate in funzione compositiva e ciò credo si senta. Con questi espedienti tecnici il quintetto suona come una piccola orchestra, anche perché il suono scorre molto velocemente lungo lo spazio, dando l’illusione, in questo modo, di un numero di fonti sonore superiore a quelle effettive.
L’attenzione allo spazio è una sua preoccupazione costante?
Non sempre. Varie forme di spazializzazione sono presenti in Duo en Résonance, in Richiamo, e in Animus Anima per ensemble vocale. In quest’ultima composizione, per esempio, ad un nucleo centrale di tre voci maschili corrispondono due gruppi laterali di voci femminili. La spazializzazione ovviamente è presente nei pezzi con elettronica. In Donacis ambra per flauto ed live electronics, oltre a sei altoparlanti che avvolgono il pubblico, c’è n’è un settimo posto in alto al centro della sala, con il quale vengono creati dei movimenti a spirale verso l’alto, oppure piogge di suono che scendono e che investono l’ascoltatore.
Già in Chiari, del 1980, ci sono due orchestre tra le quali è posto piccolo ensemble di risonanza (pianoforte, marimba e arpa) che ha una funzione sintattica fondamentale, un ruolo interpuntivo centrale che articola e chiarisce il divenire formale. La tecnica è la stessa di cui parlavo prima: l’associazione di idee, strumento estremamente efficace per costruire senso in musica.
Guardando invece da vicino le sue partiture ho notato che tra le figure da lei impiegate compare spessissimo la ripetizione, il ribattuto…
Quello delle note ribattute con tutte le sue varianti -trilli, tremoli e battimenti vari- è uno degli stilemi che ricorrono più frequentemente nella mia musica.
Mi sembra, però, con un intento diverso da quello minimalista…
Nel minimalismo l’attenzione è rivolta all’iterazione di cellule (pattern) con microsfasamenti temporali che hanno un obiettivo formale: il lento slittamento da una combinazione ritmico-melodica a un’altra. Nel mio caso si tratta di un gesto, che si modula nel tempo e che è sempre articolato con gesti di altra natura. E’ una sorta di fibrillazione sonora, ancora una volta emanazione di quel concetto di risonanza che è alla base del mio pensiero musicale.
La sua musica ha raccolto, fin dai suoi esordi, un largo consenso…
In effetti ho ottenuto riconoscimenti fin dall’inizio della mia carriera. Il mio primo quartetto e il mio pezzo per orchestra, Chiari, vinsero il Concorso Gaudeamus. In quell’occasione ho avuto un battesimo del fuoco in tutti i sensi perché il quartetto fu eseguito dal Gaudeamus Quartet (all’epoca un quartetto storico) e il pezzo per orchestra fu diretto a memoria (!) da Ernst Bour. Le racconto un aneddoto per spiegare meglio di che portata fosse l’uomo e il musicista: quando incontrai Bour la prima volta, alle prove, mi diede una lista di una cinquantina di probabili errori presenti nella mia partitura. Verificai subito che, ad eccezione di un paio di casi, le correzioni erano esatte! Aveva ricostruito tutto il sistema armonico con il quale io avevo composto il pezzo; un sistema molto particolare. Arrivare a ricostruirlo con esattezza, senza esserne l’ideatore, fu per me una cosa eccezionale .
Che influenza ha avuto questo battesimo?
Invece di essere un momento propulsivo produsse al contrario una situazione di stallo, poiché quelle condizioni ideali di lavoro che avevo trovato in Olanda non riuscii più a trovarle in Italia. Questo mi ha procurato grandi delusioni. Però ho avuto la forza di credere in quello che facevo; ho passato molti anni, anni importanti, subito dopo la trentina, durante i quali scrivevo e producevo molto pur non eseguito quasi mai.
Se da una parte maturavo come compositore, dall’altra sentivo moltissimo la mancanza di un contatto con la realtà dell’esecuzione: il contatto diretto con la musica per me è stato sempre importante, fondamentale; per me il lato compositivo non si esaurisce con la scrittura del pezzo: i pezzi voglio viverli, sentirli, discuterli con gli esecutori. In una parola: esserci dentro completamente.
Così ha deciso di partire per la Francia…
Sì, un paese che mi ha sempre attratto molto. A Parigi ho trovato la cultura della scoperta, della ricerca e dell’indipendenza intellettuale. Sinceramente non è stato difficile iniziare a lavorare. Il mio editore aveva inviato un mio pezzo, Chord, al comitato di lettura dell’Ensemble InterContemporain che lo ha selezionato senza che io ne fossi al corrente. Mentre seguivo i seminari di informatica musicale all’Ircam mi arrivò una lettera da parte dell’Ensemble InterContemporain che mi informava sugli orari delle prove del mio pezzo; rimasi piacevolmente stupito. La composizione sarebbe stata eseguita, guarda caso, proprio in Italia, a Villa Medici.
Alla prova generale Boulez, che era in sala, mi fece chiedere dalla sua assistente se ero interessato a una commissione. Non mi sembrava vero. Ciò che mi auguravo potesse avvenire nel mio paese accadeva altrove, dove ben pochi mi conoscevano! Da non credere: Boulez ascolta un pezzo, gli piace e me ne commissiona un altro. Un musicista della sua portata aveva il tempo e la voglia di ascoltare la musica dei giovani compositori e di incoraggiarli a sviluppare le potenzialità del proprio talento. Da quel momento ad ogni prima esecuzione di un mio nuovo pezzo nascevano nuove occasioni di lavoro e semplicemente perché la mia musica suscitava interesse.
Boulez propose Duo en résonance anche al Festival Milano Musica e lo diresse davanti a duemila persone alla Scala nel giugno del 1995. In quello stesso periodo l’Ircam propose anche un CD monografico con l’Ensemble diretto da David Robertson. Una bella favola…
Cosa è successo quando si è accorto che era tutto reale?
Mi resi conto che anche tra i compositori si possono instaurare rapporti di stima profonda e di amicizia.
A Pascal Dusapin, per esempio, è sempre piaciuta la mia musica; la nostra, comunque, è una stima reciproca. Quando fu compositore in residenza all’Orchestre National de Lyon mi fece commissionare Coram, per soli, coro e orchestra. George Benjamin ha fatto eseguire alla BBC-Musica del XX secolo due mie composizioni perché riteneva, bontà sua, che fosse della bella musica. Benjamin è un musicista straordinario, una persona che ha saputo dire, già a vent’anni, un universo di cose stupende in musica. Philippe Manouri, che ha avuto modo di conoscermi ai tempi dell’Ircam, in quanto compositore in residenza, mi ha fatto commissionare dall’Orchestre de Paris una grande composizione in occasione del bicentenario della nascita di Berlioz; recentemente, inoltre, mi ha chiesto di far parte dell’Atélier Lyrique del Festival di Aix-en-Provence, allo scopo di seguire alcuni giovani compositori nella produzione di opere da camera.
Qual è il suo atteggiamento verso i giovani?
Cerco di capire e di aiutare i giovani il più possibile; nei confronti delle nuove generazioni sono curioso, perché non è possibile che la musica si fermi con la mia generazione. Attualmente trovo che ci sia una preoccupante carenza di talenti tra i venti e i trent’anni. Però qualche giovane compositore in questa fascia di età c’è e va sostenuto bene: non va mandato allo sbaraglio, ma messo in guardia dai rischi che può correre se caricato di troppe responsabilità.
Credo che eseguire una composizione e viverla dall’interno sia un’operazione abbastanza difficile da comprendere…
Sì, e questo dovremmo capirlo tutti noi compositori. Dobbiamo rispetto per la dedizione e l’impegno che gli strumentisti mettono nell’offrirci delle possibilità sempre più ampie: possibilità tecniche, di ricerca, espressive tese ad allargare con entusiasmo le possibilità del proprio strumento.
Con quali musicisti collabora?
Il Concerto per pianoforte è stato eseguito da Bruno Canino, il mio ex maestro, e successivamente da Andrea Lucchesini, due musicisti di grande livello con modi differenti di interpretazione. Il Concerto per violoncello mi è stato richiesto da Jean-Guyen Queyras per Radio France. Questi solo alcuni dei tanti musicisti con i quali collaboro abitualmente.
Per quanto riguarda i direttori, ho collaborato con David Robertson, con Myung-Whun Chung, con Riccardo Muti, con Pierre Boulez. Con quest’ultimo è stata una esperienza formidabile: Boulez si presentò alla prima prova con la mia partitura segnata come poteva esserlo quella di uno studente di direzione d’orchestra, e con grande umiltà. Ma anche con autoironia: mi ricordo che mentre stava provando mi chiese se avesse preso un tempo troppo veloce; io risposi di sì. Quando riprese a dirigere dopo un po’ si girò dicendomi: è ancora troppo veloce, vero? Ridendo.
Al di là di questi aneddoti, i rapporti umani sono fondamentali, e non prescindono assolutamente dal fatto musicale. Anche con Chung è stata una bella esperienza, benché molto diversa; lui parla poco però ha un grande intuito. Con David Robertson è come se fossimo fratelli; lui proviene dal mondo della danza, quindi ha un rapporto molto fisico con la musica, entra nelle partiture con il corpo e per questo riesce bene in tutto ciò che è molto ritmico.
Esa-Pekka Salonen ha diretto alla Cité de la Musique di Parigi Duo en résonance. Quando l’ho visto dirigere, mi ha ricordato Bernstein: ogni suo piccolo gesto corrispondeva a un riflesso nell’orchestra, a una nuance, a un accento, a un attacco, a un susseguirsi di gesti estremamente armonici.
Incontrare questi personaggi è stata per me una fortuna, un’occasione importante di crescita. Sono molto contento che ora anche in Italia le mie partiture si eseguano spesso, perché amo tanto il mio paese, anche se siamo un po’ distratti nel riconoscere che abbiamo alcuni tra i musicisti migliori in assoluto che non hanno nulla da invidiare ai più bravi degli altri paesi.