Al momento stai visualizzando Luca Mosca

Il suo cammino di musicista è iniziato sul pianoforte; cosa l’ha spinta ad abbandonare l’attività di pianista per la composizione?

Sono stato affascinato da una grande passione per la composizione quando ancora studiavo il pianoforte. Verso la fine degli Anni Settanta, ancora prima di iscrivermi nella classe di composizione, al Conservatorio di Milano, ho avuto la fortuna di conoscere Castiglioni, Sciarrino e Donatoni che insegnavano in conservatorio. Io andavo spesso a sentire le loro lezioni, alle quali questi grandi maestri gentilmente mi facevano assistere. Il passaggio alla composizione è stato naturale, immediato. Per quanto riguarda il pianoforte avevo abbastanza talento, così  non ho mai avuto bisogno di studiare troppo. Proprio grazie a questa facilità sullo strumento ho cominciato a studiare poco il pianoforte e a scrivere molto; e per questo mi ritengo fortunato. Successivamente è stato quasi impossibile continuare a suonare, anche perché mi costava molta fatica, mi “annoiava”; al contrario, posso scrivere dieci ore di seguito perché mi piace da morire, anche se poi mi viene mal di schiena…

Forse questo è un messaggio su ciò che doveva realmente fare nella vita…

Penso che sia un fatto fisiologico: ad un certo momento è il corpo che reagisce e che detta, ancora di più del cervello.

Quale era il suo repertorio al pianoforte?

Un repertorio un po’ bislacco; c’era soprattutto Hindemith, il Ludus Tonalis, la Terza Sonata per pianoforte, l’integrale degli studi di Debussy.

Pensa che ci siano delle differenze tra i compositori che, come lei, nascono “sul palcoscenico” e quelli che invece non conoscono la prassi dell’esecuzione in pubblico?

Attualmente ci sono pochissimi compositori-esecutori, mentre in passato, anche nel Novecento, erano molto più numerosi; basti pensare a Rachmaninov, Prokof’ev, Bartók. Attualmente so che Kurtag suona molto bene il pianoforte, anche se non in concerto, e che Castiglioni suonava bene, soprattutto i suoi pezzi, ma anche lui non si esibiva mai in pubblico. Oggi la situazione della musica, la carriera del compositore e quella dell’esecutore sono molto diverse; ammiro molto Boulez che ha così tanta energia per riuscire a fare il direttore e il compositore ad alto livello. Ma sono casi unici. La vita dell’esecutore è talmente stressante che riuscire anche a scrivere diventa veramente spaventoso. Pensandoci bene, in effetti, lo era anche una volta: Mahler scriveva in estate le sue sinfonie, quando era in “vacanza”; io in estate preferisco andare al mare a fare il bagno, anche perché la vita è una sola…

Cosa prova quando le capita di eseguire le sue composizioni?

In verità una grande paura, una doppia angoscia. L’ultima volta che ho suonato in pubblico una mia composizione importante (escludendo le volte in cui mi capita di suonare le mie composizioni per pianoforte solo), il Quarto Concerto per pianoforte e orchestra, è stato a Roma con l’Orchestra della RAI, l’anno prima che scomparisse. E’ stata l’ultima esperienza e devo dire che mi è costata molta fatica perché ho impiegato quasi più tempo a studiare che a scrivere il pezzo. Preferisco che siano altri a suonare i miei pezzi, anche se devo dire che quando sono io a farlo è una grandissima soddisfazione, l’applauso del pubblico alla fine della composizione è veramente fantastico.

Dopo i suoi studi con Donatoni e Sciarrino sembra essersi allontanato da questi due maestri.

Devo moltissimo a entrambi perché, durante gli anni di apprendistato, mi hanno insegnato moltissimo. Sono stato fortunato perché li ho colti in un periodo in cui avevano molta voglia di darsi; non so se dopo hanno continuato sulla stessa strada. Ho studiato con Donatoni dal 1975 al ’78 e con Sciarrino dal ’78 al 1982; sono stati due insegnamenti molto diversi: Sciarrino è molto musicale, dice poche parole, ma sempre molto interessanti, soprattutto sul suono, sul timbro, sulla forma. Donatoni invece è molto tecnico e artigianale, insegna come produrre tante note, parlando meno di forma o di musica in senso stretto. Sono stati complementari e sono grato loro anche per questo.

Ad un certo punto, però, ho avuto una sorta di reazione contro i padri, forse anche esagerata; tra me e loro si è quasi creata una frattura. Adesso li apprezzo moltissimo, sono due tra i compositori che preferisco, ma perché avvenisse questo è dovuto passare del tempo. Dopo gli studi volevo percorrere altre strade e il rapporto con un insegnante, in questi casi, può anche essere duro. Adesso, con il senno di poi, mi accorgo di quanto mi abbiano insegnato e di quanto devo ai loro insegnamenti…

Ci racconti come ha trovato una sua strada da solo…

Dopo essermi allontanato da Donatoni e Sciarrino ho trascorso un periodo insieme ad alcuni compositori milanesi, accomunati sotto l’etichetta di “neoromantici”, con i quali ho instaurato un rapporto che è durato cinque anni; volevamo scrivere musica diversa, comunicando di nuovo con il pubblico. Ho creduto molto agli ideali di quel periodo, ma adesso non credo più né nel gruppo né nella possibilità di unirsi ad altri artisti, perché penso che l’arte sia qualcosa di molto individuale. Per questo motivo in questi ultimi anni ho trovato una mia strada che non si può classificare, specialmente con il genere neoromantico. Anche quella con il neoromanticismo è stata una frattura non indolore; gli altri colleghi continuano ad essere neoromantici, io invece mi sono allontanato e ci tengo a sottolinearlo.

Cosa pensa delle etichette che spesso si attribuiscono ai compositori?

Le etichette sono sempre demenziali, perché costringono chi legge un termine, come neoromantico, per esempio, a classificare una serie di artisti tutti alla stessa maniera. Ogni compositore ha un mondo a sé, qualcosa di diverso da dire, mentre con le etichette si rischia di sviare completamente il discorso da quella che è la realtà, cioè dall’ascolto dei pezzi che permette di capire come sono scritti, per apprezzarli oppure detestarli. Il gruppo dei neoromantici forse è stato controproducente da questo punto di vista, perché ha messo insieme persone che non erano tutte allo stesso livello; questo calderone non è servito a nessuno se non forse ai peggiori per accodarsi e fare anche carriera. E’ vero che chi fa da sé fa per tre… Comunque è stata una esperienza che mi è servita molto e che non rinnego assolutamente; tutte le esperienze della vita sono importanti, l’essenziale è accorgersi degli errori, quindi cambiare e non rimanere sempre uguali. Da allora sono un individuo a sé stante e scrivo una musica che spero sia soprattutto mia.

Nelle sue composizioni si sentono forti influenze stravinskiane. Pensa che nella musica che si ascolta oggi sia giusto poter riconoscere elementi appartenenti al passato o si debba tagliare i ponti con tutto quello che abbiamo alle nostre spalle?

Io penso che la musica di questo secolo sia così varia e diversificata che è possibile fare di tutto. Nella mia musica si sente Stravinskij, perché è sicuramente il compositore che ammiro di più, ed emerge quasi in tutte le mie composizioni. Sono fiero di questo, perché credo che sia ancora un compositore molto vivo; è stato un compositore esemplare, che è arrivato a scrivere della musica seriale straordinaria,  anche se poco eseguita. Io penso che anche la musica seriale non abbia tagliato del tutto i ponti con il passato: Schönberg e Berg, per esempio, avevano due modi diversi di scrivere; Berg si può addirittura definire un tardoromantico, perché lo stesso fatto di scrivere opere vuol dire già tradire la serialità. Sarebbe impossibile scrivere un’opera secondo i principi del serialismo, perché nell’opera alcune note devono emergere rispetto alle altre e le voci devono essere drammaticamente evidenziate; il Wozzeck, che è un capolavoro, è in contraddizione con la musica seriale. Schönberg scriveva una musica quasi neoclassica, riprendendo alcune forme come la suite o la sonata, persino in Webern, c’è sempre qualcosa del passato.

Se ascoltiamo la musica che scrivono attualmente i grandi compositori come Berio o Boulez, ci accorgiamo di quanto sia cambiata rispetto al passato. Ultimamente ho ascoltato un pezzo di Boulez veramente straordinario, Explosante Fixe per gruppo strumentale e nastro magnetico, che ha molti elementi provenienti da Stravinskij; mentre la musica che scriveva negli Anni Cinquanta era inascoltabile, quasi da penitenziario. Anche i pezzi che Donatoni ha scritto negli anni ’80 sono incredibili, perché sono completamente lontani dall’avanguardia. Penso che la presenza del nostro passato non sia una caratteristica solo della mia musica; i tempi sono cambiati, e esigono un ritorno a ripensare a una parte del Novecento che non è stata affrontata, prendendola nella sua totalità e sfruttandone al massimo le potenzialità. Adesso non solo i giovani compositori, ma anche quelli della generazione passata, rivedono alcune posizioni troppo estreme e scrivono una musica comunicativa, con una nuova dimensione estetica. Trovo che questo momento sia molto esaltante, ricco di talenti e di bella musica. Ho sentito Takemitsu, Castiglioni, Donatoni, De Pablo, Sciarrino: sono meravigliosi…

La forma con la quale decide di comporre i suoi pezzi influenza la sua musica?

Io ho uno strano rapporto con la forma, nel senso che non ho mai un’idea preordinata, e la maggior parte delle volte mi trovo di fronte ad una forma frammentata… Se ho un talento devo dire che è quello di inventare immagini musicali, in grande quantità, prendendo moltissimi appunti. Anche per un pezzo di dieci minuti sono capace di mettere giù cento idee, ognuna su un foglio diverso; poi, in pratica, la forma nasce dall’accostamento di queste idee diverse: comincio a pensare alle singole idee e le metto per terra, analizzando quale stia meglio vicino all’altra, oppure quale possa essere modificata per accostarla ad un’altra; così invece di una o due diventano cinque o sei, finché arrivano le idee sulla grande forma. L’importante è avere molte idee iniziali…

Nei titoli delle sue composizioni sono quasi sempre presenti i numeri. Perché questa “mania” di contare?

E’ vero, anche se, per esempio, i Nove piccoli pezzi, in realtà non sono proprio nove.

Anche i Divertimenti non sono precisamente 15…

In effetti per un periodo ho avuto questa fissazione; mi dicevo che erano 15 poi pensavo “ora prova a contarli!” In realtà non ci si riesce, anche perché è quasi una presa in giro… Negli ultimi anni i titoli dei miei pezzi sono diversi, come per esempio Terzo Trio o Sesto Trio.

Però i numeri ci sono sempre…

E’ vero… Molti mi hanno detto tra l’altro che sbaglio, perché leggendo 15 Divertimenti, per esempio, si ascolta la musica pensando ad una grande frammentazione. Scrivendo invece Concerto per oboe e orchestra, ci si aspetta qualcosa di più impegnativo, sicuramente un oboe concertante. I miei titoli servono a sviare l’ascoltatore, dando una sensazione diversa che a me piace, perché amo pensare ai frammenti, al suono in un determinato momento. Trovare in una composizione dei momenti in cui mi ritrovo completamente per è me è già molto. Senza pensare al fatto che tutto questo debba avere un significato particolare.

Si può considerare allora un gioco?

Sì, è un gioco ma che serve a interpretare la musica in una determinata maniera, forse antiretorica, ma che fa sembrare la musica più leggera…

Quali sono stati gli spunti che l’hanno portata a scrivere composizioni come Storie di Maghrebinia?

A me piace molto viaggiare, ultimamente sono stato in Bulgaria dove ho scoperto la musica bulgara, e in Marocco; durante questi viaggi rimango molto influenzato dai suoni che ascolto nei vari Paesi. Amo andare sul posto, perché questo tipo di musica non è avulso dai volti, dagli occhi, dai colori, dai profumi dei luoghi nel quale nasce. Ogni volta che faccio uno di questi viaggi mi vengono delle idee musicali, che portano a composizioni come Storie di Maghrebinia, oppure Rime arabe, per pianoforte, che è stato direttamente influenzato dal viaggio in Marocco. Nessuno di questi pezzi è descrittivo, non compare niente della musica che ascolto, è solo una mia rilettura, la mia sensazione; secondo me, però, rimane molto di un’esperienza che ho fatto con tutto il corpo, non solo con l’udito.

Lei ha composto due opere ispirate a Kafka; ha un amore particolare per questo scrittore?

Kafka è un autore che ho amato molto sin da ragazzino; a quindici anni ho letto per la prima volta un suo libro ed è stata quasi una illuminazione. Oltre che da Kafka, sono stato colpito molto da Lautréamont, poi più tardi da Dostoevskij; più recentemente ho scoperto Rabal, uno scrittore ceco morto recentemente; è uno scrittore straordinario, che ha qualcosa in comune con Kafka perché anche lui è molto frammentario nella forma. Penso che l’amore per la frammentarietà di questi autori provenga dalla somiglianza con quella della mia scrittura. Nonostante Kafka abbia un mondo da incubo, allucinato, onirico, ha qualcosa in comune con la mia musica. Forse l’autore con il quale trovo più affinità è Rabal perché è grottesco, leggero in un certo senso, non assoluto come Kafka. Comunque mi identifico molto con il senso della frammentazione che è tipicamente novecentesco.

Gli autori che ha citato provengono tutti dall’Europa orientale…

Non ho mai analizzato bene il perché di questa preferenza per gli scrittori slavi.; istintivamente, per esempio, non sono attratto dagli scrittori sudamericani. Mi piacciono molto, però, gli inglesi della fine dell’Ottocento, come Stevens o Conrad (che in realtà è polacco però scriveva in inglese), che narrano storie apparentemente semplici, per ragazzi, come L’isola del tesoro, ma con un modo di narrare molto musicale, vicino a quello che faccio io compositivamente. Conrad, per esempio, va continuamente avanti e indietro nel tempo, narra un avvenimento ma ci inserisce dei flashback nel futuro, ed è un modo di scrivere quasi novecentesco; è d’avanguardia ma anche allo stesso tempo arcaico, perché le sue radici sono nella letteratura inglese del primo Ottocento. Un autore che amo veramente molto, e ci tengo a sottolinearlo, è Dickens, anche lui esageratamente frammentario; scriveva addirittura un capitolo a settimana senza sapere cosa avrebbe scritto in quello successivo; i suoi romanzi sono un caleidoscopio incredibile di personaggi che magari appaiono per scomparire subito dopo, ma sono indimenticabili. Vorrei che la mia musica fosse come un romanzo di Dickens, con i personaggi che appaiono, anche per pochi secondi, ma che rimangono memorabili…

Descrivendo i suoi Nove piccoli pezzi ha detto che negli ultimi anni le sue composizioni sono “un insieme di frammenti musicali il cui accostamento è narrato come in un immaginario montaggio cinematografico”. Sembra un po’ quello che ha appena affermato a proposito di questi scrittori…

Amo molto anche il cinema. Nella mia musica, come dicevo prima, è sicuramente molto forte l’influenza di Stravinskij, che è il mio compositore preferito. Però le influenze ancora più dirette per quanto riguarda la forma -cioè come tutte queste immagini vengono narrate- che per me è la cosa più importante, penso che provengano prima di tutto dagli scrittori che ho citato e poi dal cinema di Ejzenstein, di Orson Welles, di Hitchkock. Sono registi importantissimi che amo molto perché basano i loro lavori soprattutto sul montaggio, sulla conseguenzialità e la coesione delle sequenze. Da questo punto di vista sono tre grandi maestri di “cinema musicale”, che non dipende assolutamente dalla musica presente nei loro film, ma dal punto di vista delle immagini. L’Ejzenstein di film come Rivoluzione, La corazzata Potëmkin, Ottobre e Sciopero, hanno un ritmo incredibile… Forse Quentin Tarantino non conosce Ejzenstein, ma anche nei suoi film traspare l’essenza del cinema russo di quegli anni: si sente nei tempi, dal senso ritmico musicale.

Anche le sue composizioni nascono pensando a questo senso del montaggio?

Sì, il montaggio è veramente importante, è la “composizione”. Ovviamente le idee iniziali possono essere di poche battute o di poche note, ma hanno bisogno di uno sviluppo che viene da altre idee ancora, e che dipende da come queste vengono assemblate tra loro. Spesso, soprattutto in passato, mi capitava di affezionarmi a quello che scrivevo, e alla fine non cambiavo perché volevo che tutto rimanesse uguale. Adesso invece sono spietato, cancello, butto, straccio, riscrivo, sono capace di rinunciare a una frase, anche se la trovo bella, se non funziona nell’economia del pezzo. Prima era come se mi dovessero staccare un braccio. Penso che sia importante anche cancellare perché, rimanendo attaccato ai particolari, si rischia di rovinare tutto, e basta veramente molto poco perché questo succeda.

Naturalmente è molto difficile parlare di questi procedimenti, perché si rischia di semplificare tutto; la realtà invece è molto complessa. Il montaggio è un procedimento che parte da tanti piccoli elementi assemblati in maniera che possano funzionare, ed è il lavoro più arduo e laborioso, mentre l’idea in sé mi viene di getto.