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Durante gli anni Ottanta la sua musica ha subito un cambiamento verso un linguaggio più libero. Ce ne vuole parlare descrivendo cosa è successo dal punto di vista tecnico rispetto agli anni precedenti?

Non è stato un vero e proprio cambiamento, forse si è cominciata a definire una strada che sentivo più mia. E’ inevitabile che terminati gli studi si percorrono varie strade; poi ad un certo punto si cerca di capire quali sono quelle che si sentono più vicine, trovando, in mezzo a tutte le esperienze vissute e attraverso le quali si è passati, un equilibrio e una sintesi di quello che è successo. Durante gli anni Ottanta ho sentito nascere una vena personale che con il passare del tempo si è andata definendo con caratteri sempre più precisi.

Quali sono le strade che aveva percorso?

Il cammino precedente a questi anni è caratterizzato da apprendimento, studio e rapporto con altri musicisti. Ho studiato e lavorato con Berio per circa quattro anni ed è stata una esperienza formativa molto interessante, perché ho avuto la possibilità di imparare da un grande musicista la cui musica mi piaceva moltissimo. Inoltre ho avuto l’opportunità di lavorare in un ambito professionale che mi ha portato in teatri prestigiosi, come per esempio alla Scala, e con orchestre e gruppi famosi. Nel frattempo ho continuato ad ascoltare ogni tipo di musica; nonostante avessi fatto studi classici, ho sempre coltivato passioni per tutti i generi musicali. Anche se mia madre suonava il pianoforte, a casa mia si ascoltava di tutto, anche pop, rock, jazz… Ad un certo punto ho capito che mi interessava percorrere una strada che potesse tener conto di tutti i linguaggi con i quali ero entrato in contatto, e che dovevo cercare una sintesi tra le varie esperienze musicali senza pormi problemi o costruire delle barriere tra un genere e l’altro.

Trovo che, soprattutto in questi anni di caos, sia molto interessante trovare il modo di mettere insieme le esperienze e i linguaggi che abbiamo intorno; penso che sia molto più affascinante cercare punti di contatto tra i generi musicali piuttosto che escludere a priori i caratteri tipici di uno o dell’altro solo perché ci si è proposti, per esempio, di comporre musica classica.

Cosa pensa, a proposito, degli spettacoli che vedono affiancati interpreti “classici” a famose rockstar?

Mi sembra che sia un modo più superficiale di affrontare il problema. In questi ultimi anni si è parlato molto di contaminazioni, che vengono portate avanti a livelli più o meno profondi e maturi. La sintesi dei linguaggi non è facile e può essere cercata in vari modi; a me interessa farlo in modo approfondito.

Il suo lavoro in teatro è caratterizzato da strette collaborazioni con  scenografi, scrittori e coreografi…

Il mio modo di fare teatro è nato in seguito ad alcuni incontri particolari che mi hanno permesso di lavorare senza separazioni nette tra i compiti. Ho sentito sempre la necessità di entrare anche nell’ambito della concezione generale dell’opera, nella scrittura e nell’organizzazione formale del testo, o nella traccia di una coreografia, anche perché credo che nel caso del teatro musicale, come in quello della danza, l’impostazione generale sia data dalla musica. Invece di usare un pezzo di musica scelto casualmente, mi sembra che sia più interessante avere una visione generale anche del discorso musicale, che in questo modo può creare una struttura più solida alle immagini o alle coreografie. Ho sempre cercato di entrare più a fondo nei progetti teatrali, collaborando sempre di più strettamente piuttosto che limitandomi a fare quello che mi richiedevano.

Come si sviluppa il suo lavoro con Andrea De Carlo?

La collaborazione con Andrea ha avuto inizio circa dieci anni fa con lo spettacolo Time Out. Negli anni Ottanta, quando facevo parte della scena musicale contemporanea, ero stanco dell’ambiente concertistico, lo trovavo soffocante: si organizzavano piccoli festival ai quali non interveniva un vero e proprio pubblico ma solo addetti ai lavori, e dove non c’era un giro di persone particolarmente stimolanti né interessanti. Avevo voglia di cambiare aria e mi era venuta voglia di pensare alla collaborazione con artisti che lavoravano in ambienti diversi. Volevo realizzare uno spettacolo che avesse come tema il tempo e la musica rappresentava questo tema in modo ideale. Doveva essere uno spunto per sviluppare un’idea attraverso la quale varie discipline si mettevano in relazione tra loro: il tempo diventava un punto di riferimento al materiale musicale, visivo e narrativo. Con Andrea abbiamo cominciato a pensare a uno sviluppo, a una specie di racconto che è diventato un viaggio nella quarta dimensione, una sorta di Alice nel paese delle meraviglie ambientato nei giorni nostri: la storia un personaggio che si trova per caso in un’altra dimensione e non riesce più a tornare indietro.

Conclusa la sceneggiatura (muta perché si tratta di un balletto) è iniziata la ricerca di un gruppo che potesse realizzare lo spettacolo lavorando con le immagini, in una specie di teatro danza. Dopo aver assistito a uno spettacolo degli Iso Dance Theatre, che mi avevano colpito molto, ho proposto loro il progetto e abbiamo messo su insieme lo spettacolo. Loro hanno interpretato molto liberamente e in modo molto astratto il racconto, arrivando a una soluzione diversa da quella iniziale, ma molto interessante. Il lato positivo e stimolante delle collaborazioni è che si vengono a creare sempre nuove idee rispetto a quelle di partenza, perché durante il cammino ci si lascia influenzare dal lavoro degli altri.

E’ venuta fuori una esperienza bellissima; gli Iso Dance erano molto bravi, avevano molto dinamismo e sono riusciti a dare un bell’apporto al progetto che poi è stato rappresentato dappertutto. Per me è stato stimolante perché in quegli anni ho avuto per la prima volta un contatto con un pubblico diverso, un vero pubblico che veniva a vedere spontaneamente uno spettacolo e che reagiva con entusiasmo, e non un pubblico di addetti ai lavori. Da quel momento è iniziata una fase più matura, anche per quanto riguarda il tipo di rapporto da instaurare con il pubblico…

Che tipo di composizioni aveva scritto precedentemente?

Avevo fatto dei lavori in ambito più classico con gruppi e orchestre. Il primo lavoro importante, al quale mi piace fare riferimento, risale agli anni ’80, ed è un quintetto di fiati dal titolo Ai margini dell’aria. E’ un lavoro in cui sento ancora dentro una forte energia, al quale sono tuttora molto affezionato, forse perché  ha una sua libertà di scrittura e contiene delle idee che ho continuato a sviluppare successivamente. L’avevo scritto per il festival Pontino, a Fossanova, e arricchito successivamente in America, a Tanglewood.

Il titolo è evocativo di un modo particolare di suonare?

La composizione inizia pianissimo, come se arrivasse da lontano: prima suonano clarinetto e corno ai quali poi si aggiungono gradatamente il flauto, l’oboe infine il fagotto, tutti nel registro centrale. Dopo uno sviluppo centrale più ricco e complesso anche dal punto di vista ritmico, che si muove tra i vari registri degli strumenti, ritorna il pianissimo con oboe e corno da soli. I margini dell’aria sono i margini del silenzio. E’ un lavoro che a distanza di quasi vent’anni suonano ancora molti quintetti.

Recentemente ha iniziato anche a lavorare per il cinema…

Sì; Nanni Moretti, colpito da un mio concerto, ha voluto inserire i brani delle Onde nel suo film Aprile. La prossima colonna sonora alla quale mi dedicherò prossimamente, è per il film Jonny Dispari, di Dominique Tambasco. L’abbinamento tra musica e film, la collaborazione con generi diversi, l’idea di mettere insieme la musica con altre esperienze visive e di scrittura mi attirano sempre e quando c’è un’occasione valida e interessante lo faccio sempre volentieri. Sono sempre molto interessato a portare avanti delle collaborazioni da vicino, che a volte riescono altre no.

Crede che il cinema possa essere utile alla diffusione della musica contemporanea?

E’ un modo di fare ascoltare il repertorio contemporaneo ad un grande pubblico. Bisogna trovare però i film giusti, e in Italia non è facile perché si producono soprattutto commedie.

Passando agli interpreti della sua musica, vorrei che parlasse del suo lavoro con Cecilia Chailly.

Conosco Cecilia da molti anni perché studiavamo insieme in conservatorio e avevamo degli amici comuni. Ricordo di averla sentita quando aveva circa sedici anni, alla piccola Scala, in un concerto durante il quale eseguiva un pezzo d’avanguardia (mi sembra del percussionista Ben Omar) cantando e suonando l’arpa e le percussioni. Mi aveva colpito molto per la sua intensità e perché aveva i tempi giusti. Ci siamo incontrati dopo qualche anno perché Cecilia aveva iniziato a chiedere ad autori più o meno giovani, comunque della nuova generazione e che davano un taglio di rinnovamento alle avanguardie tradizionali, delle composizioni per il suo strumento. Io scrissi per lei un pezzo, Vega, inspirato a un’arpa elettrica che stava sperimentando in quel periodo: era uno strumento che rispetto all’arpa acustica tradizionale aveva sonorità interessanti, dei bassi molto profondi, un suono vicino a quello della chitarra che non evocava l’arpa classica antica. Mi era piaciuta molto l’idea che si potessero anche aggiungere dei riverberi, modificando il suono.

Quando chiesero a Cecilia di suonare al parco di Milano per un piccolo festival che prevedeva vari interventi (tra i quali una installazione di Brian Eno), lei decise di eseguire alcuni pezzi scritti da me per pianoforte, ai quali stavo lavorando in quel periodo e che si prestavano molto bene a essere suonati con l’arpa. Nei giorni prima del concerto siamo andati in studio e mentre provavamo abbiamo registrato tutti i pezzi che sono appunto stati poi raccolti nel disco Stanze. Quello che avevo notato in lei quando aveva sedici anni era rimasto; mi piaceva molto il suo modo di suonare, il suo senso del tempo, un equilibrio un po’ magico che poi è venuto fuori nell’interpretazione della mia musica: Cecilia riusciva a raggiungere un tono di imprevedibilità senza stravolgere niente, tutto cadeva nel punto giusto ed era sempre sentito dal profondo.

Lei è uno dei pochi compositori ad eseguire e dirigere regolarmente le proprie composizioni. Sente l’esigenza di stare sul palco insieme alla sua musica?

Negli ultimi anni dirigo raramente perché mi capita più frequentemente di suonare con gruppi o da solo. Si tratta del bisogno di avere un confronto diretto con il pubblico: la necessità di sentire le emozioni e di avere una gratificazione al momento dell’esecuzione. Trovo sempre degli interpreti che suonano i miei pezzi più o meno bene e che possono anche sorprendermi in senso positivo, ma penso che la lettura e il messaggio preciso che può dare chi ha pensato una composizione possa contenere una verità che comunque ha una sua importanza. Considerato che suono il pianoforte e mi soddisfa il modo in cui quello che suono viene fuori, trovo che sia importante farlo. C’è anche un’altra considerazione: nel mondo di oggi è anche più semplice se la tua faccia, presente sul palcoscenico, corrisponde alla tua musica; c’è una identificazione più forte rispetto alla deviazione attraverso interpreti esterni. Sono sempre contento se altri vogliono suonare la mia musica, ma a me piace molto farlo.

Il prossimo autunno sarò impegnato in alcuni concerti in Europa; in Inghilterra ha molto successo Le Onde e in settembre e ottobre proporrò al Southbanks Center, con Cecilia Chailly, una versione di Stanze per pianoforte e arpa.

Scrivere musica tonale o non tonale sembra essere diventato un problema del nostro secolo che ha creato eccessive prese di posizione. Qual è la sua risposta a riguardo?

Mi sembra assurdo creare barriere: ci sono autori che scrivono bellissima musica al di fuori della tonalità e viceversa. L’importante è che ogni cosa abbia un senso compiuto. Si può scrivere brutta musica tonale ma si possono ancora oggi scrivere belle canzoni con solo due accordi. L’importante è quello che c’è dentro, che deve essere vero e sincero. Il discorso della tonalità-non tonalità mi sembra in fondo un discorso esteriore. Ad un certo punto del cammino musicale è stato giusto recuperare parte di quello che l’avanguardia aveva eliminato drasticamente. Penso che bisogna essere molto liberi nell’usare gli elementi che servono per esprimere le emozioni.

Parliamo della sua composizione Selim; come viene trattata la tromba in un brano che rende omaggio a un grande del jazz?

Selim (è il contrario di Miles) mi è stato commissionato l’Orchestra Regionale Toscana per la prima tromba, Donato De Sena. Quando lo incontrai scoprii che aveva un notevole bagaglio di jazz, così pensai di scrivere un pezzo pensando a Miles Davies. Avevo sempre amato e stimato Davies, soprattutto il suo diverso approccio alla tromba che non aveva niente di fanfaristico; il colore del suo suono era lunare, misterioso. Ho pensato che poteva essere interessante rendergli un omaggio riprendendo la sua tecnica, il suo modo di suonare, il suo stile, il suo fraseggio. E’ stato bello tornare per un po’ di tempo sulla sua musica, cercando di capire e di estrapolare alcuni spunti. Il concerto è stato eseguito a Firenze lo scorso anno; prossimamente verrà anche registrato in un CD dedicato alla musica italiana da Jeff Schibberlslag, un trombettista americano che è venuto anche recentemente in Italia.

Come ha affrontato un tema classico come quello di Orfeo, ricco di un passato musicale importante per la storia dell’opera?

Sul filo d’Orfeo è un balletto nato da una committenza del Maggio Musicale Fiorentino che vedeva affiancati vari progetti sullo stesso tema: un Orfeo rivisitato da Berio con vari gruppi musicali, quello di Monteverdi e il mio balletto. E’ stato il mio primo approccio con il teatro e con la danza e non so se oggi lo rifarei allo stesso modo. Dopo questo lavoro mi sono occupato sempre più da vicino della struttura generale delle opere, dedicandomi a un approfondimento generale dei progetti. Sul filo d’Orfeo è un grande affresco con esplorazioni intorno al tema della seduzione di Orfeo; sono passato attraverso la strada del mito alla ricerca un filo rosso da seguire, cercando i punti salienti dell’azione e della storia, concentrandomi su quello che sentivo più vicino: il tema evocativo dell’amore, il richiamo, la conquista e la seduzione attraverso il suono. Ricordo che avevo scelto un finale con una versione un po’ cruenta, con le baccanti che portano via Orfeo, in modo selvaggio.

Cosa deve suscitare la sua musica nell’ascoltatore?

Spero che susciti le stesse emozioni che ho vissuto mentre la scrivevo. Fondamentalmente mi concentro più sulle emozioni che sulle forme, anche se è difficile separare le due cose, perché  senza una forma musicale definita i suoni sarebbero inarticolati.

Qual è il fine ultimo del suo lavoro di compositore?

E’ difficile rispondere… Nella mia musica c’è sempre una aspirazione a qualcosa di spirituale, la ricerca di un senso in quello che scrivo. Sento sempre il bisogno di comunicare qualcosa di assoluto, di profondo, soprattutto un sentimento, anche se indefinito. Per me è importante cercare di raggiungere un livello di comunicazione che vada oltre la vita che scorre via con le cose di tutti i giorni. Penso che si debba mirare a qualcosa di forte, come può essere l’amore, che è bene tenere sempre presente. Non è detto che si arrivi a comunicare questi sentimenti, l’importante è suscitare qualcosa di profondo negli altri e stabilire un contatto al di sopra della vita terrena (intesa come quello che si fa tutti i giorni) che spesso è fatta di cose inutili. Vale la pena di ricordarsi che si ha la possibilità di comunicare o di vivere delle emozioni: solo così si capisce che la vita può essere una cosa importante…