Al momento stai visualizzando Alessandro Solbiati

L’intervista ad Alessandro Solbiati è nata al telefono ma questo non ci ha impedito uno scambio di idee e un racconto appassionato della sua vita e del suo modo di comporre.

La sua musica sembra essere in equilibrio tra accettazione dell’avanguardia e ricorso alla tradizione. Da cosa nasce questo equilibrio?

L’equilibrio è quello che cerco da quando ho iniziato a comporre. In questi ultimi vent’anni del secolo ci siamo fatti carico delle esperienze dell’avanguardia per fare il passo successivo che, per quanto mi riguarda, consiste nel ritrovare quei legami con la tradizione che per necessità storica si volevano a tutti i costi negare.

Forse in maniera esagerata…

Il radicalismo è connotato inevitabile delle avanguardie e il loro compito primo è tagliare i ponti con il passato. Ricordo di aver letto che l’avanguardia degli eserciti antichi, i soldati che partivano in avanscoperta, si bruciava il territorio alle spalle per essere costretta ad andare sempre avanti. Le avanguardie musicali hanno fatto lo stesso. Io faccio parte della generazione successiva, che deve ricollegare i fili con il passato anche attraverso quella esperienza.

Cosa prende e cosa rifiuta di questi due momenti della storia della musica?

Quello che sento come definitivamente consegnatoci dall’avanguardia è il riconoscimento dell’esaurirsi delle possibilità espressive della lingua tonale; lo dico senza rimpianto: in Occidente tutto cambia continuamente (un giornale di vent’anni fa parla una lingua diversa da quella di oggi); sebbene in questi ultimissimi anni i confini stessi tra tonalità e non tonalità si siano in un certo senso sfumati.

Sento molto vicine le tecniche nate in Italia negli anni Sessanta e Settanta, che hanno come punto di partenza Maderna e come personalità che direttamente le ha in qualche modo codificate Franco Donatoni. Mi piace dare la paternità della mia musica a Bruno Maderna (oltre che a Franco Donatoni e Sandro Gorli) e al suo superamento del serialismo.

Ci sono molti aspetti che mi legano alla tradizione -a me piace usare il termine senso della tradizione: avere il senso della tradizione, non rifare la tradizione. Il primo è riconoscere oggi, negli anni Novanta, la centralità dell’idea di figura musicale, tipica, peraltro, di quasi tutto il comporre occidentale. Dopo le astensioni dalla figura del webernismo, tutta la musica successiva, in particolare quella italiana, ha ricostruito il senso della figura. Con una definizione certo un po’ sbrigativa, posso dire che per figura intendo tutto quello che si può dire di un evento musicale senza parlare delle note che lo formano, ciò che connota uno stato sonoro e la sua evoluzione a monte del fatto notale.

Che quindi vale sia per la tonalità che per l’atonalità.

Esatto, e può essere un ponte formidabile con la tradizione: oggi abbiamo la possibilità di essere così chiari ed evidenti da poter dire tranquillamente che la figura assume la funzione e l’importanza che il tema o il tematismo avevano nella musica storica. Durante gli anni Cinquanta c’è stata, nella media, una totale astensione dalla figura: una composizione che fosse netta figuralmente era considerata un evento di tipo tonale.

Un altro legame riallacciato con la tradizione è la riconquistata possibilità di indagine su alcuni parametri a lungo trascurati come ad esempio la ricerca per una nuova riconoscibilità dell’armonia, sia in senso statico, sia nella ricostruzione di un suo “tendere verso”. Grande importanza ha per me la dimensione melodica, presente nella mia musica da sempre, sin dai primi anni di studio. Ogni cultura ha sempre avuto un suo modo di cantare. Da allievo, negli anni Settanta, avevo l’impressione che la musica europea del Dopoguerra non avesse cercato il proprio modo di cantare, e che quando ha voluto farlo si rifugiasse in quello tonale. Ho sempre pensato che se una cultura non ha un suo modo di cantare, ma deve prenderlo in prestito da altre tradizioni, è un segnale grave sul suo stesso stato di salute.

Tutte le mie composizioni, sin da quando ho cominciato a scrivere, inseguono la ricostruzione di un senso melodico. All’inizio credevo che qualsiasi sequenza di note orizzontali e legate costituisse una melodia, poi ho capito che non è così, che c’è bisogno di una direzione, di una selezione armonica e intervallare, dell’eventuale ripetizione di frammenti, di una serie di elementi che possano fare in modo che una sequenza di note prenda un aspetto che si possa definire melodico. Tali elementi sono in fondo comuni a una melodia gregoriana, a una tibetana, a una di Chopin, a un canto popolare europeo…

In realtà noi non sappiamo definire con precisione cos’è una melodia ma non abbiamo dubbi quando ne ascoltiamo una…

Quando si fanno i primi esercizi di contrappunto, tutti presi dal problema di essere consonanti verticalmente, le prime malaccorte linee che vengono fuori dalla contrapposizione di nota contro nota risultano molto simili a elettrocardiogrammi e non suonano affatto come sequenze melodiche. Se invece decido di muovermi, di partire dal grave, ad esempio, di slanciarmi, di rimanere nell’acuto per poi tornare nella regione media, il risultato prende un sapore melodico perché ha una sua traiettoria, un’arcata riconoscibile.

Bruno Maderna, che io riconosco come padre inconsapevole (perché ho conosciuto la sua musica quando era morto), è stato il primo grande dei nuovi compositori che abbia riflettuto sul senso melodico; tutte le sue sequenze melodiche hanno una struttura a parabola, hanno sempre una direzione.

Forse non è un caso se chi non ha fatto studi musicali ricordi, di quello che ascolta, solo la linea melodica…

Sì, e può succedere sia con la musica di Bach o di Brahms che con qualsiasi altra, perché non è vero che la sequenza melodica di un pezzo atonale non si possa cantare. Quello che ognuno ricorda è quasi sempre la direzione della sequenza. Ha mai pensato che la prima scrittura impiegata per il canto cristiano era quella chironomica, che per far ricordare le melodie ne indicava la direzione nello spazio? La notazione alfabetica era troppo complessa e poco intuitiva, mentre l’idea del movimento melodico suggerito da quello della mano rimaneva bene impresso.

Che ruolo ha avuto la musica nella sua infanzia?

La mia storia musicale è iniziata giocando con un organetto elettrico. Mentre gli altri si divertivano a suonare con un dito una nota in modo che venissero fuori automaticamente le note della triade, a me piaceva trovare da solo gli accordi. Per anni mi sono rifiutato di studiare uno strumento, nonostante l’insistenza dei miei genitori, perché non mi interessava lo studio accademico. Verso gli undici anni ho cominciato a suonare delle musiche composte da me, sempre su un organetto elettrico, cercando il mio suono con un approccio molto artigianale. Due anni dopo, in occasione di una rappresentazione teatrale semiprofessionale del Saul di Alfieri, alla quale partecipava mio fratello, mi sono stati affidati da comporre cinquanta minuti di musica che dovevo suonare direttamente sullo strumento perché ovviamente non sapevo scrivere la musica. All’inizio del secondo atto, che narra di una alba sanguinosa, suonavo un cluster: mi appoggiavo all’organo con le braccia e le toglievo gradualmente fino a far rimanere un solo accordo di la maggiore; l’idea della trasformazione e della direzione armonica in fondo mi apparteneva già da lì. Dopo altri episodi simili mi hanno convinto a studiare musica, ma il mio approccio, comunque, è rimasto sempre molto personale.

In che maniera ha studiato la musica del passato?

Tra i quattordici e i diciotto anni ho ascoltato e registrato in modo onnivoro ciò che del Novecento venisse trasmesso per radio. Solo successivamente mi sono avvicinato sistematicamente alla musica storica.

Anche il mio corso di composizione è stato un po’ particolare. Quando studiavo armonia con Renato Dionisi, intorno ai diciannove anni, Luca Mosca -mio carissimo amico che studiava con me pianoforte- mi consigliò di andare a seguire le lezioni di Franco Donatoni. Da quel momento la mia vita è cambiata: sono diventato un allievo molto regolare, in pochi anni di studio folle ho vinto vari concorsi, mi sono diplomato e ho cominciato a insegnare; tutto questo attraverso la conoscenza di Donatoni, che è stato il mio punto di riferimento.

La conoscenza di Donatoni è avvenuta entrando da “clandestino” nella sua classe di composizione a Milano, che una volta a settimana era aperta a tutti, contro ogni regola. Io mi mettevo in un angolo e ascoltavo gli altri. Un giorno ebbi il coraggio di avvicinarmi al suo tavolo per mostrargli un quartetto d’archi che avevo composto senza nessuna tecnica precisa; mi ricordo che guardò a lungo questa decina di fogli dicendomi di buttare via tutto tranne una pagina sulla quale avrei dovuto concentrarmi. Andando a casa tra il contento e il disperato ho cominciato a chiedermi perché quella parte potesse funzionare e il resto no. Alla fine ho confusamente intuito che mentre tutto il resto del pezzo era tradizionalmente concepito per temi e contrappunti, in quella pagine faceva capolino una sorta di astrazione figurale: le linee dei quattro strumenti venivano a disegnare sulla partitura una sorta di losanga. La lezione dopo gli portai naturalmente un pezzo con una trentina di queste losanghe. Successivamente andai a studiare con lui a Siena; durante le lezioni mi accorsi che a me non parlava dei suoi procedimenti così come faceva con molta precisione agli altri allievi. Quando due anni dopo gli chiesi il motivo (preoccupato che fossi un caso disperato al quale era anche inutile parlare) mi rispose che effettivamente non se ne era mai reso conto, ma era convinto che io avessi già superato il mio punto nero e che dovevo solo andare avanti.

Riconosco Donatoni e Sandro Gorli come due figure importanti, ma penso di avere avuto anche una buona dose di autodidattismo.

La sua attività ha seguito il percorso inverso rispetto alla maggior parte dei compositori che inizia sullo strumento…

Sì; dalla composizione sono nati gli studi classici, che sono stati molto duri. Anzi, devo dire che da quando poi ho cominciato a studiare il pianoforte, verso i quattordici anni, per due o tre anni non ho più creato la mia musica. La prima composizione frutto degli studi è del 1977; da quel momento in poi sono andato sempre avanti.

Il suo modo di ascoltare la musica è condizionato dalla sua professione di compositore oppure riesce a separare le due attività?

Da quando ho iniziato a comporre è cambiato molto il tipo di ascolto: ogni volta tendo a mettermi, istintivamente, dalla parte del compositore nel momento in cui l’opera non era stata ancora composta. Cerco così di mantenere sempre lo stupore nell’ascolto. Da poche settimane insegno analisi nel corso di musicologia a Milano: il mio percorso consiste idealmente (cioè utopicamente) nel far ritrovare gli allievi nei panni di chi ha scritto un determinato pezzo al momento dell’inizio della composizione, cercando di capire dall’interno le motivazioni che lo hanno spinto a comporre così. Recentemente in classe abbiamo analizzato le Variazioni su tema di Schumann op. 9 di Brahms. E’ straordinario notare come, evidentemente, Brahms abbia colto nel tema un nesso non sviluppato da Schumann stesso: alla terza battuta il basso ripete la prima battuta della melodia tematica, offrendo così lo spunto per un possibile canone. Mentre Schumann, però, non svolge quel canone (che rimane implicito, inconsapevole) Brahms rende evidente questa relazione interna del materiale tematico, costruendo una serie di variazioni basate sul canone. Analizzare con questo spirito significa mettersi dalla parte del giovane Brahms che sceglie come materiale di partenza un pezzo del venerato Schumann, cogliendone con stupore un nesso implicito e portandolo a compimento. E significa anche instaurare un rapporto diverso e vivente con il materiale del passato. Questo dà il senso della tradizione.

Nella stessa composizione c’è una straordinaria variazione che ho sempre usato come impagabile metafora: si tratta della decima, che all’ascolto suona come la variazione più esplicitamente melodica, mentre se la si analizza si scopre che è quella più arditamente contrappuntistica. Il punto di massima elaborazione intellettuale corrisponde al punto di massima espansione emotiva: questa è la perfetta risposta a chi continua a vedere la musica, soprattutto quella contemporanea, divisa in cerebralità ed espressività. Se l’intenzione è profonda non c’è separazione tra le due, anzi l’una nutre l’altra.

Forse è proprio per la sua complessità nascosta che una composizione apparentemente semplice ma ben strutturata non annoia mai..

Non annoia perché presenta una complessità che può anche non essere percepita, può rimanere inconscia in chi ascolta, ma che ci conduce a voler ascoltare di nuovo quel pezzo. Oltre un certo livello di semplicità l’opera si rivela immediatamente del tutto e diventa noiosa. Quando la complessità diventa complicazione, come in certa musica contemporanea, quando diventa valore fine a se stesso non serve a nulla; ma quando nutre la composizione moltiplicandone i livelli di lettura, allora è funzionale all’opera stessa. La musica più bella della storia è quella dotata di una grande complessità interna ma che allo stesso tempo presenta una superficie comunicativa. Nella storia della musica hanno talvolta prevalso l’uno o l’altro dei due aspetti: si è dato valore assoluto alla complessità (penso a Okeghem o a Ferneyhough) o si è dato valore all’estremo opposto (una parte del primo Novecento operistico italiano, oppure la musica galante del Settecento quando si credeva che l’orecchio fosse in grado di percepire solo una melodia e il suo accompagnamento). In entrambi i casi la musica perde interesse, per eccesso di semplicità o per eccesso di complicazione.

Si ricollega al discorso dell’equilibrio tra passato e presente…

Noi abbiamo la possibilità di cercare un equilibrio tra avanguardia e senso della tradizione perché abbiamo gli strumenti consegnatici da anni di accanita ricerca che adesso possiamo allargare di nuovo a una superficie meno ideologica e più immediatamente comunicativa. Questa è la grande possibilità dei nostri anni.

Per quale motivo il pubblico di oggi, pur non apprezzando sempre la nuova musica che gli viene proposta, non reagisce violentemente come è successo per esempio con la Sacre di Stravinskij?

Penso che non possa accadere lo stesso perché nel frattempo la civiltà occidentale è diventata cinicamente onnivora: accetta tutto ma con molta indifferenza. Un esempio lampante è che non si fischia più ai concerti, ma si applaude tutto allo stesso modo; non ci si scandalizza più di nulla, né di una cosa né del suo contrario, né di un pezzo in do maggiore scritto oggi né della più dura accademia dell’Avanguardia. Nelle nostre orecchie c’è tutto e il contrario di tutto e il vero rischio è quello di non accorgersi del peso specifico delle cose.

Nonostante questa tendenza all’indifferenza conservo una certa fiducia nella capacità dell’ascoltatore, che si accorge sempre quando c’è qualcosa di valido. Recentemente ho assistito ad alcune esecuzioni di musiche di George Benjamin, un giovane autore inglese, e ho visto reagire il pubblico con grande entusiasmo ad una musica che, se pur complessa, ha una grande energia, e l’energia si trasmette sempre.

Forse la colpa dell’indifferenza è da attribuire anche alle numerose informazione che bombardano i nostri sensi…

Sì, c’è troppa informazione e quindi un abbassamento del livello di attenzione. Allo stesso tempo, però, la musica di oggi ha una maggiore possibilità di essere ascoltata in concerto, e questa è una possibilità che non dobbiamo perdere. Ma si dovrebbe smettere di organizzare concerti di sola musica contemporanea; la stessa quantità di musica contemporanea dovrebbe essere inserita all’interno dei programmi classici, evitando qualsiasi tipo di steccato. E’ viceversa uno scandalo la diminuzione enorme della musica contemporanea trasmessa alla radio (e non parliamo poi della televisione).

Lei sa che alcune emittenti radiofoniche di musica rock cominciano a trasmettere i canti gregoriani o il Canone di Pachelbel?

In questi ultimi anni c’è sicuramente una maggiore apertura e meno snobismo da parte della cultura. La maggior parte dei compositori o dei musicisti della mia generazione ha messo le mani nella musica di altro genere; io, per esempio, a quattordici anni suonavo in un gruppo rock. Ma non succede il contrario: i musicisti che partono da una estrazione non classica mediamente non sono affatto curiosi nei confronti della musica contemporanea; per musica colta intendono solo quella del passato. Sarebbe interessante assistere alla reazione del pubblico se i musicisti rock inserissero nei loro concerti alcuni brani di musica contemporanea. Organizzare concerti di musica leggera negli auditori di musica classica non serve perché, oltre ad essere un po’ ruffiano, il pubblico rimane separato.

Quale è il motivo dei numerosi titoli stranieri (in particolare tedeschi) presenti nel suo catalogo?

Sebbene attualmente io stia cercando di fuggire da titoli troppo lunghi e poetici, sentendoli melensi, mi è piaciuto spesso trovare nei poeti da me amati un brandello di verso che ben si adattasse a intitolare un pezzo. E i miei poeti amati sono Rilke, Hölderlin, Garcia Lorca, Borges, Dickinson, Rimbaud… Ad esempio, nel caso del pezzo per clarinetto basso e sette strumenti, Mi lirica sombra , due versi di Garcia Lorca dicono “Como una pantera, su sombra acheca mi lirica sombra”: mi sembrava molto calzante l’immagine secondo la quale il clarinetto basso potesse essere come una pantera che spia la mia ombra lirica.

Quale reazione le suscita il pensiero che Beethoven componesse quando era ormai totalmente sordo?

Non mi stupisce che componesse da sordo perché il comporre è l’estroflessione di energie interiori che prendono forma attraverso un suono; il suono deve corrispondere a quelle energie interiori perché è lo stesso controllo del suono a essere interiore.

Mi piace esemplificare il processo compositivo usando la metafora della limatura di ferro che si modifica e prende una forma precisa seguendo un campo magnetico nel quale venga immersa. Allo stesso modo il comporre visualizza e dà forma alle energie interiori attraverso il suono che assume il ruolo della limatura di ferro. Il controllo del suono deve essere assoluto perché altrimenti si dà una forma sbagliata alle energie interiori, ma dipende dall’orecchio interiore. L’ascolto esterno durante la composizione spesso porta su altre strade, perché quello che ci può piacere oggi può non piacere domani, mentre la necessità interna che proviene da un controllo interiore del suono mi appare più profonda, più motivata e quindi più stabile.

esecutori due oboi, due clarinetti, due fagotti, due corni