Al momento stai visualizzando Carlo Boccadoro

Come si colloca il suo stile, ricco di elementi provenienti da culture musicali diverse, nel panorama contemporaneo?

La musica che scrivo è molto “contaminata”, di conseguenza non nutro molta simpatia per i puristi. Ho esordito con un ottetto per fiati nel quale mescolavo frammenti di Schubert a temi tratti da canzoni di Cole Porter: questo già indicava grosso modo la strada che avrei preso. L’unione tra Schubert e Porter può far capire come io non faccia distinzioni qualitative aprioristiche tra musica classica e altri generi musicali; per me il jazz, il rock e il pop possono avere (e spesso hanno) lo stesso valore di composizioni cosiddette “colte”. Nel mio ambiente, invece, vedo molte persone che con la commistione di linguaggi hanno grandi problemi.

Successivamente la Rai-Radio 3 mi ha commissionato un pezzo per quintetto di ottoni, Mirim, basato su ritmi della House Music inseriti all’interno di forme derivate dalla musica classica: passacaglie, tecniche contrappuntistiche imitative come quelle in uso ai tempi di Gabrieli. Il risultato era un curioso “Gabrieli Funky”, mentre sul piano armonico il brano aveva molti debiti con il voicing di Gil Evans. Il pezzo, infatti, è nato da uno strano sogno che avevo fatto poco tempo prima: mi trovavo nella cattedrale di San Marco a Venezia e ascoltavo un concerto di musiche per ottoni dirette da Gabrieli e arrangiate da Evans. Mi era venuta così in mente l’idea che se i musicisti dell’epoca avessero conosciuto il jazz e il funk forse li avrebbero eseguiti così come appare nel mio pezzo.

Lei ha una grande passione per il jazz…

Il jazz è la linfa vitale della mia musica. Nelle mie composizioni, però, al contrario di molti jazzisti che scelgono un tipo di improvvisazione libera da schemi, cerco di utilizzare delle forme ben precise e organizzate, anche se la mia musica non ha fortunatamente nulla a che vedere con il cosiddetto Third Stream, un genere nato negli anni ’50 in cui si cercava di far suonare musica seriale ai jazzisti con risultati che trovo francamente abominevoli. Durante i primi anni della mia attività di compositore l’influenza più marcata era quella del pop, che si è progressivamente ridotto per lasciare maggior spazio al jazz.

Si esibisce anche come jazzista?

Non sono un jazzista, anche se insieme a Mauro Negri, che è uno dei più grandi clarinettisti di jazz in Europa, faccio ogni tanto dei concerti di improvvisazione nei quali iniziamo a suonare senza sapere dove arriveremo, con risultati finali piuttosto curiosi.

Oltre al jazz da quali tradizioni musicali si lascia maggiormente affascinare?

Ho una grandissima passione per generi musicali completamente diversi tra loro. Adoro tutta la musica extraeuropea, africana, indiana, turca, balinese, amo molto il rock, la musica brasiliana, il soul e rhythm ‘n’blues degli anni Sessanta, la musica giamaicana, il pop, il funky e la musica classica dal Duecento ad oggi; sono un fanatico di John Cage e di Bruno Maderna, ma anche di Philip Glass, Steve Reich e John Adams. Ultimamente ho lavorato insieme a Moni Ovadia in diversi progetti di musica klezmer. Parlare dunque di “purezza” stilistica ad uno che, come me, ha questi gusti diventa paradossale.

La musica che ascolta si riflette successivamente nelle sue composizioni?

Nei miei pezzi cerco sempre di fare entrare tutta la musica che amo, infatti mi capita spesso di scrivere brani molto diversi tra loro, dallo stile completamente opposto. Recentemente ho composto, dedicandolo a Gabriele Cassone, un brano per tromba e organo, Tenebrae Facte Sunt, veramente austero. Subito dopo, però, ho scritto una composizione per attore ed ensemble basata su alcune favole di Sergio Tofano scritte per divertire i bambini.

Spesso un mio pezzo è la negativa fotografica di quello precedente. Mi piace paragonare le mie composizioni alle foto degli album di famiglia nelle quali non si è mai da soli, ma si vedono parenti e amici. Nei miei pezzi si vedono, per così dire, i miei genitori e i miei amici musicali. Ascolto anche con attenzione la produzione dei miei colleghi, come Filippo Del Corno, Giovanni Sollima, Roberto Andreoni, Marco Betta e non ho alcun problema a “rubare” quello che mi piace dei loro lavori per farlo mio. Quando sento dire che i miei pezzi assomigliano un po’ a Stravinskij oppure ad Adams sono contento, perché vuol dire prima di tutto che ho ascoltato questi autori con attenzione e poi che li ho assimilati. Molti si fanno un punto d’onore nell’essere completamente immuni da qualsiasi influenza musicale; trovo questo atteggiamento molto triste e squallido.

In questo vastissimo quadro come nasce il suo pensiero compositivo e perché ha scelto la tonalità?

Non credo a chi dà ancora per buona la vecchia equazione “musica tonale=musica reazionaria” e ritengo che la tonalità non sia affatto morta. Ammiro diversi compositori che non la utilizzano, come György Ligeti o Hans Werner Henze, ma sono completamente in disaccordo con gli attuali seguaci dello strutturalismo, quelli che Massimo Mila chiamava “i bidelli dell’avanguardia”. Non posso andare d’accordo con compositori che ritengono la tonalità estinta a priori e inattuabile, senza nemmeno prendersi la briga di ascoltare la musica di chi si trova su posizioni diverse. Né posso concordare con coloro che si aggrappano ciecamente ai miti che non si discutono; uno di questi è Luigi Nono, un compositore sul quale non sembra oggi possibile esprimere dei dubbi senza incappare nelle ire di qualche “convertito”. Personalmente non provo il minimo interesse per questo musicista, che ritengo sopravvalutato in modo abnorme dalla critica ufficiale.

Le mie scelte compositive nascono dall’esperienza diretta della pratica strumentale. Sono stato per anni un percussionista, ed eseguendo prevalentemente musica contemporanea ho potuto vedere dall’interno come lavorano certi compositori… Mi sono ben presto reso conto che molti autori erano incapaci di seguire le loro stesse partiture: andava bene qualsiasi cosa, l’importante era che dopo sei mesi arrivassero i diritti della SIAE.

Quando ho capito di essere in grado di comporre ho desiderato scrivere musica diversa da quella che ero costretto a suonare per lavoro. Ero convinto (e lo sono ora più che mai) che la pessima fama di cui godono determinate avanguardie musicali sia dovuta al fatto che ai nove-dieci compositori esistenti di reale valore corrispondono centomila cialtroni che ne imitano a pappagallo lo stile in modo dilettantesco, anziché utilizzare l’influenza di questi autori cercando di riproporla in una prospettiva differente. Credo infatti che sia molto facile scrivere un pezzo in stile finto-Sciarrino o finto-Donatoni: a quel punto mi sembra molto più logico continuare ad ascoltare solo gli originali e comporre una musica diversa. Generalmente si pensa che chi scrive musica tonale lo faccia per scegliere la strada più comoda, mentre è in realtà molto più difficile comporre in questo modo; si deve saper orchestrare, conoscere bene l’armonia, capire l’uso delle forme. Per scrivere pezzi pseudo-avanguardistici mescolando un po’ di Ferneyhough, qualche spettro sonoro “à la Grisey” e naturalmente un po’ di spazializzazione acustica alla Boulez (non si sa mai, si potrebbe sempre venir chiamati all’IRCAM) non ci vuole niente; tutti questi atteggiamenti compositivi sono ormai una pila di cliché vecchi come il cucco.

D’altra parte credo che sia ormai finito il tempo delle polemiche della fine anni Settanta/primi anni Ottanta, quando in Italia c’era solo l’estetica post-Darmstadt e poco altro. Se pensa che in quegli anni i pezzi di Ligeti e Berio venivano considerati “ammiccanti” perché erano perfettamente comprensibili a chiunque, può capire bene il clima di vero terrorismo culturale che imperava allora. La battaglia portata avanti dai primi compositori neoromantici è stata importante per abbattere il muro di questo atteggiamento, e far sì che autori come il sottoscritto e altri della mia generazione, che pure adottano uno stile diverso dal neoromanticismo, potessero comunque esistere.

Si discute molto sulla mancanza di comunicazione della musica contemporanea; cosa pensa a proposito?

Attualmente esiste una grande quantità di musica di ottima qualità che riesce perfettamente a comunicare con un pubblico molto vasto. Autori come Louis Andriessen, Frederick Rzewski, Ron Ford, Giya Kancheli, David Lang, James Mac Millan, Steve Martland, Michael Daugherty, Aaron Jay Kernis, che da noi sono conosciuti pochissimo, ottengono un vasto consenso all’estero e non hanno alcun problema di comunicazione con chi li ascolta. Che poi la maggior parte di questa musica sia tenuta al di fuori dalle stagioni concertistiche nostrane è un altro discorso. Sono molto ottimista riguardo al futuro della musica; non credo né alla crisi dei linguaggi né a quella del rapporto con il pubblico, perché quando agli ascoltatori si propone della musica moderna eseguita (e provata) con la stessa cura ed attenzione riservate al grande repertorio, la differenza, in termini di comprensione da parte della gente, è evidente. Non parlo solo di autori che si eseguono da soli o con il loro ensemble, come Michael Nyman o Philipp Glass, ma anche di una buona esecuzione del Prigioniero di Luigi Dallapiccola. Si tratta semplicemente di abituare il pubblico a capire una lingua differente da quella a cui è tradizionalmente abituato. Dicendo questo mi rendo perfettamente conto di aver fatto una riflessione davvero degna di La Palisse…

Qual è il suo giudizio sul post-webernismo?

Lo considero una estetica che non si può ignorare dal punto di vista storico, ma che mi è difficile valutare come il vero e unico periodo rappresentativo della modernità negli ultimi cinquant’anni. Parallelamente alle esperienze pur sofferte di Darmstadt c’erano altri musicisti, come Dmitrij Shostakovich, Samuel Barber, Benjamin Britten, Aaron Copland, Francis Poulenc e altri che continuavano il loro percorso musicale senza esserne influenzati; questo non ha certo impedito loro di darci opere di grandissimo rilievo. Ignorare i lavori di questi musicisti solo perché negli anni Cinquanta e Sessanta non applicavano il serialismo integrale o l’alea mi sembra un atteggiamento delirante; eppure ci sono molte persone che ragionano, ancora oggi, in questo modo veramente primitivo. E’ assurdo pensare che tutti debbano inevitabilmente cancellare l’influenza delle esperienze precedenti o contemporanee alla seconda Scuola di Vienna per poter creare delle composizioni storicamente responsabili; sarebbe come credere possibile l’eliminazione delle lingue di tutto il mondo per utilizzare unicamente l’Esperanto. Negli anni Venti coabitavano tranquillamente musicisti del tutto dissimili tra loro come Webern e Ravel, Bartók e Stravinskij. Non bisogna dimenticare che Anton Webern diresse la prima esecuzione a Vienna di Le Boeuf sur le Toit di Milhaud, un pezzo considerato volgarissimo dai “precieux ridicules” della critica post-weberniana. Dubitare del buon gusto musicale di Webern mi sembrerebbe malizioso, quindi preferisco pensare che il maestro viennese avesse la mente notevolmente più aperta di molti dei suoi seguaci. Non creda, quindi, che io desideri cancellare l’esperienza di Darmstadt; semplicemente non capisco perché viene ricordato così raramente che si tratta di una estetica di quarant’anni fa, e da allora la musica ne ha percorsa di strada.

In questi ultimi anni la musica classica sembra anche avvicinarsi alle tradizioni extracolte…

L’ideale sarebbe poter finalmente ascoltare un concerto nel quale pezzi di Rota, Stockhausen e Keith Jarrett potessero venire eseguiti nello stesso programma, accomunati solo dal fatto di essere della musica di qualità. Naturalmente questa resta ancora un’utopia; quando Jarrett è venuto a suonare alla Scala un celebre violinista del quale è bello tacere il nome si è alzato gridando allo scandalo; e Jarrett suona regolarmente all’estero nelle più prestigiose sale da concerto.

Qual è il suo parere sulla presenza di musica “diversa” nei cartelloni delle istituzioni classiche?

Mi sembra un’ottima idea purché non si trasformi in un alibi per schivare la programmazione di musica contemporanea. Ho la sensazione che invitando De Gregori a “Santa Cecilia” o facendo cantare insieme Jovanotti e Pavarotti si cerchi di far passare questi avvenimenti musicali come la dimostrazione che non esistono più barriere di linguaggio, ma questa è una ipocrisia. Le commistioni linguistiche sono interessanti se si realizzano a livello estetico e creativo, non facendo eseguire il tema di “Guerre Stellari” al posto di una nuova commissione. Non vedo perché nella mente di alcuni direttori artistici la sola alternativa alla musica d’avanguardia siano le canzoni, contro le quali non ho assolutamente nulla, anzi, ma che dovrebbero essere ospitate accanto, e non in alternativa, a brani nuovi commissionati ad autori di musica classica contemporanea. Qual è invece la procedura attuale? Si commissiona un’opera a Dalla o a Battiato, ai quali si dà finalmente il diritto di essere considerati “compositori seri” e non più solo autori di canzoni, ed il problema è risolto. Con nomi di questo tipo naturalmente il botteghino salta, i giornali ne parlano, eccetera. Esistono invece tanti autori di musica contemporanea, oltre a quelli che ho già citato, che pur non avendo il richiamo di questi nomi meriterebbero la stessa opportunità di essere eseguiti in questi spazi. Non credo inoltre che De Gregori, Dalla, Battiato o Jarrett abbiano bisogno della patente di “artista” elargita generosamente loro dai rappresentanti della cultura ufficiale. Hanno un grandissimo pubblico che li segue comunque, e una loro dignità artistica ben specifica, indipendentemente da qualsiasi ente lirico. Se questi spazi, svegliandosi di colpo, si sono accorti di loro e li ospitano solo adesso è un problema che non riguarda questi musicisti, ma le istituzioni stesse.

Mi piacerebbe vedere una maggiore attenzione da parte di questi teatri per musiche che non sono necessariamente legate ad una dimensione di mercato, come il jazz o la musica etnica. Anni fa proprio il Teatro dell’Opera di Roma organizzò un festival dedicato al jazz italiano, ma purtroppo non mi pare che questa esperienza abbia avuto seguito da altre parti.

La nascita delle sue composizioni viene influenzata dalle peculiarità tecniche ed espressive degli esecutori?

Mi comporto esattamente come un sarto; cucio i pezzi addosso agli esecutori. Chi mi commissiona un pezzo va incontro ad un periodo gramo, perché si vede tempestare giorno e notte da telefonate e richieste riguardo allo strumento. Prima di tutto cerco di documentarmi meglio che posso sugli strumenti per i quali decido di comporre, poi quello che scrivo viene provato e riprovato, e se lo strumentista ha difficoltà anche modificato. Sono molto fiero di questo lato artigianale della mia attività, penso sia fondamentale avere un rapporto di simbiosi totale con l’esecutore e non di elaborazione astratta del materiale musicale, senza curarsi della sua realizzazione effettiva.

Considerando questo rapporto come vive il momento del concerto?

Generalmente sono tranquillo, anche se qualche scongiuro prima dell’esecuzione non fa mai male. Ascoltare la propria musica eseguita bene è una delle sensazioni più straordinarie che possano provare, e spesso è l’unico vero motivo per il quale si continua a fare questo mestiere.