Pur avendo esordito giovanissimo lei si è affermato subito con uno stile ben definito. E’ una dote naturale o ha dovuto cercare dei caratteri distintivi all’interno della sua musica?
Miles Davies afferma che lo stile è come il proprio sudore, è qualcosa che viene fuori inevitabilmente. Io non ho cercato mai uno stile ben preciso, anche se all’inizio ho fatto delle scelte molto radicali dal punto di vista del linguaggio musicale. La prima decisione è stata quella di non credere nell’evoluzione del linguaggio musicale come hanno raccontato nel nostro secolo, cioè che la progressiva complicazione del linguaggio è lo scopo e il fine della ricerca dei musicisti e dei compositori del Novecento. Ho sempre ritenuto, al contrario, che fosse necessaria un’operazione di semplificazione del linguaggio musicale, e che le linee di discendenza di un musicista non andassero cercate solo nel passato più recente ma anche in uno molto antico. Il mio punto di partenza è stato la musica del Trecento.
Adesso le mie scelte sono meno radicali, soprattutto grazie ad alcuni incontri che hanno modificato il mio stile. E’ stato fondamentale conoscere prima la musica di Berio, poi lui personalmente: ha modificato molto il mio modo di vedere le cose. Credo che questi incontri siano necessari a chi compone: ogni volta, per ogni pezzo e per ogni composizione, bisogna rimettersi completamente in gioco, altrimenti si propongono sempre i propri cliché.
Credo che un altro dei difetti della musica d’avanguardia del nostro secolo sia stata la creazione di certi marchi di fabbrica; alcuni compositori hanno ripetuto gli stessi identici schemi per anni e anni, cambiando soltanto organico e titolo. La scommessa continua con se stessi, invece, è quella di reinventarsi ogni volta un nuovo approccio a un problema, un nuovo approccio a un argomento, un nuovo approccio a una composizione. Credo che il mio linguaggio musicale, adesso, abbia accolto innanzitutto molte più dissonanze, poi una articolazione più nervosa e frammentata, in particolare delle strutture ritmiche. Una volta prevaleva una vena contemplativa e radicalmente medievale, con sviluppi musicali molto lenti. Ora il mio pensiero formale è basato su contrasti, ma non si può mai dire l’ultima parola…
Ogni volta che compongo mi pongo un problema diverso che cerco di risolvere con strumenti diversi, ottenendo risultati sempre diversi. Il problema che può nascere è quello della mancanza di una identità ben precisa, ma non posso essere io a pormelo, riguarda chi ascolta o chi esegue il lavoro…
Forse l’importante è mantenere, comunque, un segno di riconoscimento…
Penso che il mio segno di riconoscimento sia la mia grande fiducia nel far parlare le note per quello che sono. Pur riconoscendone il valore, trovo inutile utilizzare formule linguistiche innovative; mi interessano e mi piacciono, ma impiegate da altri compositori. Per quanto mi riguarda non si sentirà mai nella mia musica un multifonico, un colpo di chiave o suoni di questo genere.
Da quando ha cominciato a comporre il suo modo di ascoltare la musica è cambiato?
Sono diventato molto più curioso. Più vado avanti più mi incuriosisce anche la musica lontana da quella della mia formazione. Quando ho iniziato a comporre ho individuato alcuni compagni di strada ideali, naturalmente, quali Steve Reich, Philipp Glass, per un certo periodo Arvo Pärt, in Italia Paolo Castaldi. Individuati questi modelli mi sentivo a mio agio solo con loro. Poi mi sono lentamente trasformato e aperto sempre di più; adesso mi interessa qualsiasi tipo di musica, anche se molto diversa da quella che scrivo io o da quella più vicina alla mia indole. Mi sto abituando a riconoscere spunti interessanti e significativi anche nelle musiche lontane dalla nostra tradizione. Questo ha cambiato il modo di percepire, non tanto la musica classica -perché quella l’ho sempre ascoltata- ma soprattutto la musica contemporanea.
Nel senso che riesce a comprenderla anche più facilmente?
Sì, e ad appassionarmi più facilmente ai linguaggi diversi. Tra l’altro, secondo me, proprio in questi ultimi anni sta accadendo un fenomeno meraviglioso: l’esplosione di linguaggi musicali diversi e lontani; è come trovarsi in una foresta con alberi e piante dalle forme nuove, con organismi nuovi. Questo fenomeno è interessantissimo, ma per apprezzarlo bisogna avere le orecchie aperte e io le orecchie me le sono aperte progressivamente, anche con difficoltà e con qualche piccolo trauma.
E‘ l’orecchio che deve essere educato a comprendere, con l’esperienza propria di ogni cultura, la musica del proprio paese…
Sì, ma va anche educata l’attitudine all’ascolto… Negli ultimi tempi sono interessato in modo particolare alla musica di Goebbels; se l’avessi ascoltata cinque anni fa, l’avrei catalogata come qualcosa di talmente lontano da me da non avere la più pallida possibilità di colpirmi. Adesso, invece, Goebbels mi piace molto, anche se continuo a comporre in modo completamente diverso. Credo che questa attitudine di ascolto a 360 gradi stia permeando non solo gli addetti ai lavori, ma anche gli ascoltatori, che stanno diventando sempre più spregiudicati (nel senso positivo) e sempre più aperti, ogni volta, a sintonizzarsi su onde diverse. Trovo questo molto affascinante.
Non crede che con il bombardamento di suoni e immagini che riceviamo ogni giorno stiamo perdendo la capacità di un ascolto attento?
Devo dire la verità, se confronto la situazione di oggi con quella di dieci anni fa, vedo invece segni di miglioramento… Sia nella musica contemporanea che in quella leggera.
Pensa che l’uso del computer possa modificare il modo di scrivere e di pensare la musica?
Io utilizzo il computer esclusivamente come strumento per scrivere in bella copia, mai per comporre, quindi rimane un mezzo di lavoro molto pratico. Ci sono compositori che lo utilizzano per scrivere e credo che questo modifichi molto il modo di scrivere e lo stile musicale, con vantaggi e svantaggi. Certe volte si ascoltano delle ripetizioni che derivano proprio dai gesti automatici di “taglia” e “incolla”. Io amo scrivere tutto rigorosamente a mano e poi, se ho tempo, faccio la bella copia.
Lei ha composto Silence the wind per flauto amplificato; quali sono i motivi che spingono ad andare oltre lo strumento acustico? Pensa che con l’uso dell’amplificazione e di alcuni effetti -tipici della chitarra elettrica- ci si avvicini, in qualche modo, alla musica leggera?
Il principio era quello. La composizione è nata per Emilio Galante che usa infatti delle pedaliere che amplificano le possibilità dello strumento senza però alterarne la dimensione sonora. Silence the wind è stato scritto proprio per cercare di sviluppare questo principio di trasformazione dello strumento, senza incidere nella sua natura. Quando Emilio Galante mi ha chiesto di comporre un pezzo per lui, era implicito che fosse scritto per il suo modo di suonare il flauto, che è molto diverso da quello tradizionale ed è abbastanza irripetibile, perché è difficile che altri lo imitino. L’idea era quella di utilizzare questo strumento tecnologico non come un totem al quale sacrificare la propria ispirazione musicale, ma credendo nelle possibilità della tecnologia di risolvere le questioni della scrittura musicale e inventando una nuova dimensione dello strumento. Io ho voluto ampliare la dimensione sonora dello strumento senza mai modificarne la natura.
Come se fossero coinvolti più esecutori?
Sì, come se ci fossero due o tre esecutori oppure come se all’esecutore fosse data la possibilità di trasformarsi, di suonare più flauti contemporaneamente. Nel periodo in cui ho scritto quel pezzo ero affascinato dalle figure speculari, in particolare dal canone, che utilizzo spessissimo ancora oggi nelle composizioni tradizionali; trovo che sia la figura musicale più affascinante. L’idea del canone è quella di avere due immagini: la seconda è uguale alla prima, pur modificando la natura della prima perché si trova in una posizione diversa. E’ quindi molto interessante avere una immagine che è uguale ad un’altra, ma che trasforma il significato della prima soltanto attraverso una diversa collocazione temporanea. Molte parti di Silence the wind sono basate su questo principio.
Lei ha fatto due esperienze collettive, la prima con Paolo Castaldi per la composizione di un Magnificat, l’altra legata alla commissione di un Requiem scritto da poeti e musicisti provenienti da tutta Europa. Cosa si assimila e cosa invece si sacrifica convivendo con altri stili?
Sono due esperienze molto diverse. Quella del Magnificat collettivo è nata nel 1986 durante un corso estivo con Paolo Castaldi, ed è stata una esperienza travolgente. Dopo i primi giorni di corso, Castaldi -che oltre ad essere un compositore straordinario è una personalità di grande fascino intellettuale- ha deciso di farci mettere in pratica quello che diceva. Come forma di costruzione collettiva ha coinvolto tutti in questo progetto, in questa composizione unica. Il testo era quello del Magnificat, al quale abbiamo aggiunto l’organico successivamente. Castaldi ci ha proposto una sequenza melodica molto semplice alla quale dovevamo uniformarci tutti; ciascuno di noi applicava a questa sequenza melodica una delle tecniche che ci aveva spiegato, generando varie pagine che poi andavano, quasi miracolosamente, a collimare tra loro. Era stranissimo: noi lavoravamo alle sequenze melodiche la mattina e il primo pomeriggio, poi nel tardo pomeriggio, la sera e la notte, ci trovavamo insieme per cercare le forme con le quali si potevano far combaciare questi frammenti. La partitura era formata da grandi fogli di cartone bianco sui quali noi incollavamo i nostri frammenti che si potevano sovrapporre generando risultati molto significativi, circostanze miracolose, oppure l’esatto contrario, direzioni opposte; allora si scollava la parte e si incollava in un punto diverso. E’ stata una esperienza affascinante che ha portato a un risultato di grande significato didattico; non so che valore musicale avesse, ma per noi è stato molto divertente, perché si era creata una combinatorietà un po’ sciamanica: di fronte a problemi insolubili arrivava Castaldi e trovava il modo di unire tra loro musiche lontanissime che, accostate in una certa maniera, ricevevano l’impulso a stare insieme. Questa è stata la mia prima esperienza di composizione collettiva.
Esattamente nove anni dopo ne ho fatta un’altra un po’ diversa, perché in quel caso è stato preso il testo della messa da requiem ed è stato diviso tra sei nazioni; da queste sei nazioni sono stati scelti un giovane compositore e un giovane poeta: il poeta doveva tradurre il testo e il compositore musicarlo. In questo modo è venuto fuori un grande affresco all’interno del quale sono sei le lingue parlate e quelle musicali; però c’è una netta separazione tra una sezione e l’altra. La prima parte è stata affidata a me e a Daniele Garbuglia, la seconda parte a un polacco, la terza a un autore bosniaco, la quarta a uno estone, la quinta a un greco e la sesta un inglese.
In realtà in questo caso non c’è stata una vera e propria collaborazione…
No, ci siamo incontrati e conosciuti la sera della prima esecuzione. Era affascinante la molteplicità di linguaggi verbali e musicali che si era venuta a creare, e il fatto che eravamo tutti al di sotto dei 30 anni; anche umanamente è stata una bellissima esperienza. Nessuno di noi conosceva gli altri compositori, quindi non c’era neanche un principio di comunanza linguistica; si ascoltano pezzi completamente diversi. Io dovevo musicare l’Introito; è stato come costruire una sorta di ouverture ad un pezzo che non sapevo né come sarebbe iniziato né come sarebbe andato avanti; così ho deciso di concludere con un accordo che aveva infinite possibilità di risoluzione, per cui la parte successiva, preparata da questo mio accordo, poteva iniziare in qualsiasi modo.
Una sua composizione dal titolo Six memos mi ricorda un’opera di Luis De Pablo. Si tratta di un omaggio al compositore spagnolo?
Non conosco quest’opera di De Pablo. La mia composizione fa riferimento a Calvino. Sulla prima pagina delle Lezioni Americane è riportato “Six memos for the next millennium”, un appunto manoscritto preso da Calvino, seguito dall’elenco di sei valori: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e consistenza. Io ho fatto un operazione che è stata poco compresa da chi ha ascoltato la mia composizione, e anche ferocemente criticata; ma sono convinto che la mia idea non era così sbagliata. Il libro di Calvino è molto complesso e ricchissimo di idee, ma io non ho voluto, con la mia musica, rispecchiare questa complessità, perché sarebbe stato impossibile. Ho semplicemente preso in considerazione i sei valori che Calvino aveva indicato, come se fosse stata una pagina messa in una bottiglia lanciata nell’oceano e arrivata in qualche maniera a me. Ho aperto la bottiglia, ho trovato queste sei parole e mi sono lasciato guidare dalle risposte alla suggestione di quelle parole tramite processi e figure musicali; ho scritto un pezzo per orchestra che avesse relazione con quei valori. Un po’ come se fossero i colori di una tavolozza e io fossi un pittore che dipinge un paesaggio ipotetico del prossimo millennio inserendo i sei valori nella sua tavolozza.
Il problema è che tutti avevano in mente il libro di Calvino e, ascoltando il mio pezzo, lo hanno trovato troppo debole rispetto alla forte proposta di Calvino; io volevo fare un’altra cosa, anche se non mi sono spiegato abbastanza bene. Nonostante tutto è un pezzo che ha avuto una certa fortuna e viene eseguito abbastanza perché viene apprezzata la sostanza musicale. E’ la mia prima composizione per orchestra di medie dimensioni.
Nel suo catalogo compare una Cadenza per clarinetto scritta nel 1995 e dopo qualche anno una Cadenza obliqua con l’accompagnamento della marimba. C’è una evoluzione tra le due composizioni?
Sono due composizioni molto diverse tra loro. Cadenza per clarinetto solo nasce come una immagine. Nel mio processo compositivo molte volte lavoro per immagini; mi vengono in mente delle figure strane, astratte, alle quali cerco di collegare un processo musicale. In Cadenza non avevo in mente un immagine musicale, ma un solista -un clarinettista- che fosse in una stanza con il pavimento coperto di carta, di frammenti musicali; il clarinettista ad un certo punto decide di eseguire questa musica disposta in maniera del tutto casuale, eseguendo una riga per ogni pagina che trova.
Il senso musicale di queste tante righe suonate dal clarinettista -accostate con principi quasi casuali- è ottenuto attraverso delle scelte interpretative che aiutano frammenti musicali così eterogenei ad acquistare un senso. La mia idea di cadenza era questa e in effetti il pezzo per clarinetto ha questo andamento un po’ rapsodico e molto frammentato.
Quindi cadenza nel vero senso del termine…
Sì, c’è anche un principio armonico dentro la parola “cadenza”; l’aspetto affascinante è che ha un doppio significato: da una parte è l’esibizione virtuosistica del solista, dall’altra è anche collegamento di accordi. Per trovare un legame tra tutti questi fogli sparsi sul pavimento della stanza del nostro clarinettista, ho pensato di ricondurre tutti questi frammenti allo stesso collegamento tra accordi; quindi c’è un principio armonico che regge tutti i frammenti melodici. In pratica tutti questi frammenti sono armonizzabili nella stessa identica maniera; questo per creare una unità nella casuale molteplicità di frammenti del clarinettista.
Cadenza fa parte di un progetto che sto portando avanti da tempo che prevede varie cadenze; ora ne sto scrivendo una per chitarra che si chiama Cadenza sospesa; mi diverte l’idea di trovare nell’aggettivo “sospeso” un significato che richiama un processo musicale ma che però ha anche un significato espressivo o ideale.
Cadenza obliqua è molto diversa: inizia come cadenza, però non ha più questo principio di diversificazione di frammenti. In questa composizione il mio interesse era soprattutto per la figura dell’obliquità, creata tra il clarinetto e la marimba. Tutta la composizione è costruita in modo rigoroso e interamente intessuta di canoni, che io considero figure oblique: le note di una melodia, se poste in una successione canonica, creano delle figure oblique. L’obliquità mi appassiona moltissimo. Il clarinetto esegue la melodia (la stessa di Cadenza) e la marimba lo segue in maniera obliqua per tutto il corso del brano; poi ci sono varie trasformazioni.
In Cadenza obliqua c’è anche un altro principio che ho utilizzato in altri miei brani: è quello di avere due strumenti che suonano contemporaneamente due melodie diverse riuscendo a creare un significato comune. La sovrapposizione delle melodie crea un significato che non è dato dalla semplice sovrapposizione ma da qualcosa di diverso. Questo è un caso di obliquità un po’ particolare. Mi è venuto in mente lavorando con Marco Bagliani, un regista teatrale; molte volte, quando si trova davanti a un testo teatrale in cui ci sono due monologhi, uno di seguito all’altro, crea una situazione teatrale per cui i monologhi si sdoppiano e diventano due, e vengono recitati contemporaneamente; le parole confliggono, però la loro sovrapposizione produce un terzo piano di significato che sta in una posizione superiore alla semplice somma delle due frasi.
Sembra il principio dei concertati delle opere liriche…
Sì, però nel concertato c’è sempre un principio di complementarità, mentre quello che mi interessa è che questi due o tre organismi abbiano una loro autonomia, nel senso che presi da soli riescano ad essere autonomi; la loro individualità riesce, nella loro sovrapposizione, a creare un significato “altro” che sta in un’altra regione di significato, in una posizione obliqua.
Lei ha composto anche un concerto per clarinetto e orchestra; cosa accetta e cosa rifiuta della forma classica del concerto per solista e orchestra?
Ha diversi rifiuti e alcuni punti di collegamento; il rifiuto è nei confronti del rapporto che si instaura di solito tra solista e orchestra. Tradizionalmente tra solista e orchestra si creano due tipi di rapporto: l’accompagnamento (l’orchestra accompagna il solista), oppure il rapporto dialettico, con il solista che propone e l’orchestra che risponde cercando di trovare i punti di collegamento o di sintesi tra queste due posizioni. Per superare questo problema mi sono rifatto ancora una volta all’immagine del “solista in fuga”. Ho immaginato lo strumento solista in fuga dall’orchestra, come un personaggio in possesso di una mappa, l’unico in possesso della mappa di una città, quindi l’unico che sa dove deve andare, che ha un senso dell’orientamento. L’orchestra lo insegue perché il suo scopo è prenderlo, catturarlo. Dal punto di vista musicale il solista è sempre due battute avanti rispetto all’orchestra, che continua a stargli dietro.
Il principio del solista in fuga mi ha permesso di creare un nuovo rapporto tra queste due entità -solista e orchestra- che non fosse riconducibile a strutture classiche. Questo concerto è molto lontano dalla forma classica perché non è diviso in tempi, anche se presenta una cadenza, un momento di esibizione solistica e virtuosistica dello strumento. Sempre ritornando all’immagine del clarinetto in fuga, ho ipotizzato che il solista rimanesse solo, come se l’orchestra si perdesse e ciascuno decidesse che questo inseguimento fosse inutile e vano e abbandonasse la strada tracciata dal clarinetto. Ci imbattiamo così in un clarinetto solo che, non più costretto dalla fuga, può suonare in maniera completamente diversa da come ha fatto per tutto il concerto: questo è veramente un momento di cadenza, un punto di contatto, se pur breve, con la forma classica del concerto.
Perché allora il titolo Passages?
Insieme all’idea del clarinetto in fuga, per questa composizione sono stato guidato da un principio “urbanistico”; in quel periodo stavo lavorando alla creazione di situazioni musicali tra loro estremamente eterogenee che però fossero legate da un principio comune, come per Cadenza l’idea dell’armonizzare che univa i frammenti di carta. A Parigi capita molto spesso di essere in una piazza che ha una certa architettura, un profumo nell’aria, che è frequentata da certe persone e ha una certa luce; poi si imbocca un passage (cioè una galleria), si percorrono dieci metri al coperto e ci si trova in un’atmosfera completamente diversa: altre luci, altre persone, altri profumi sembra di avere cambiato città. In realtà i confini della città sono sempre gli stessi, siamo nello stesso luogo, eppure ci troviamo in un posto diversissimo.
Nel comporre Passages ho pensato al clarinettista in fuga che da una piazza si butta in una galleria e si trova in una situazione diversa da quella che ha appena lasciato. L’orchestra in un certo senso gli frana addosso trovandosi anch’essa trasformata perché all’improvviso arriva in un luogo musicale assolutamente eterogeneo rispetto a quello che ha appena abbandonato. Questo accade un po’ di volte nel corso del concerto; chiaramente ogni volta ho cercato di mutare l’atteggiamento, per cui in alcune piazze si arriva dopo una corsa a capofitto, in altre dopo progressivo avvicinamento, in altre non esiste più il principio di inseguimento perché l’orchestra si trova abbastanza bene nel luogo dove è arrivata; in altre ancora succede che non ci si possa sostare che per un momento e bisogna abbandonarle subito. Il riferimento urbanistico mi ha consentito di andare avanti in questo gioco di immaginazione. Dimitri Ashkenazy (per il quale ho scritto il pezzo) mi ha detto, prima che io gli spiegassi tutta la storia che c’era dietro, che era un pezzo abbastanza facile da suonare ma molto faticoso psicologicamente. Logicamente non capiva perché fosse così, poi si è reso conto di essere sempre avanti di due battute rispetto all’orchestra, sempre in fuga, e questo era divertente…
Quali sono le sensazioni che prova quando compone?
Della composizione mi piace la sfida, ogni volta che compongono -mi ripeto- mi rimetto in gioco, si sospendono le certezze. Per me è importante farsi sempre delle domande nuove, e ogni volta rispondere in maniera diversa. Questo è molto affascinante. Per me scrivere è un grande divertimento, un gioco; della composizione mi piacciono le sorprese che si incontrano quando improvvisamente ci si rende conto che la strada che si era intrapresa quasi per gioco ha una sua serietà e tante potenzialità. Per me non esiste né fatica né sofferenza nello scrivere, è divertimento, gioia, anche se indubbiamente c’è tanto lavoro, ma comunque è un lavoro piacevole. E’ come quando si va a vendemmiare: ci si diverte sempre, anche se poi c’è un momento in cui ci si accorge di essere arrivati, a metà giornata, ad una parte piccolissima del lavoro che ci si era prefissati di fare. Trovo molto bello e fondamentale il rapporto che si instaura con gli esecutori e con gli ascoltatori. Non riuscirei a scrivere se non avessi sempre questi due poli di risposta; quanto più sono presenti più è piacevole. L’esecutore dà la sostanza sonora del tuo pezzo, facendo tantissime domande utili per chiarire anche i processi musicali. Gli ascoltatori sono fondamentali perché certificano che la tua volontà di comunicazione di dialogo abbia una base, altrimenti non funziona…