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Conoscevo Francesco Pennisi sin da piccola, perché era amico dei miei genitori; incontrarlo in occasione di quella che era la mia prima intervista, però, non ha evitato una grandissima emozione e il timore del primo approccio a questo mondo.

Vorrei cominciare parlando della sua formazione. Che tipo di esperienza è stata quella degli anni Sessanta al Festival di Palermo quindi l’incontro con la scuola post-weberniana?

A Palermo nei primi anni Sessanta c’era un gruppo di giovani intellettuali: Gioacchino Lanza-Tomasi, Nino Titone, Paolo Emilio Carapezza, Roberto Pagano e Francesco Agnello, che dimostrò rare capacità organizzative; c’era, inoltre, Luigi Rognoni, titolare della cattedra di Storia della Musica, che già nel ’54 aveva pubblicato il primo vero saggio in Italia sulla Scuola di Vienna. La presenza di queste persone creò il clima, la possibilità di immaginare e di fare uno dei festival più vivi ed interessanti d’Europa. Palermo era in verità l’unico luogo in Italia dove si ascoltava la cosiddetta “Nuova Musica” la Neue Musik della quale parlavano Adorno ed i maestri di Darmstadt. La Biennale di Venezia, nonostante avesse già messo in scena Intolleranza 1960 di Luigi Nono, era ancora molto cauta verso le nuove correnti della composizione musicale. E forse fu per la rarità dell’occasione che in Sicilia arrivarono tutti, musicologi e compositori, persino dagli Stati Uniti, come Stephan Wolpe. 

Ma a Roma c’era già “Nuova Consonanza”…

“Nuova Consonanza” si può dire che nacque a Palermo, o comunque per iniziativa di musicisti che a Palermo erano molto impegnati come Daniele Paris, Franco Evangelisti, Domenico Guaccero, Egisto Macchi ed io stesso dal 1962, dopo il mio esordio sempre a Palermo con L’anima e i prestigi, un breve pezzo su una lirica di Lucio Piccolo. 

Come si collegava la sua musica alle esperienze di quegli anni e alle indicazioni della scuola di Darmstadt? Questo lavoro iniziale era in linea con quelle teorie?

Direi che L’anima e i prestigi era un pezzo scritto con consapevolezza di quanto accadeva nel mondo. Io venivo da esperienze dodecafoniche e quindi, dello strutturalismo, capivo le premesse, come capivo in una certa misura le ragioni del suo contrario, dell’alea; ma capivo soprattutto che a quella specie di contraddizione, a quella specie di corrente alternata, bisognava guardare con un certo distacco e che l’andare verso il silenzio, che era uno degli argomenti, se non quello più diffuso, doveva tradursi forse in attesa, in studio, tenendo anche conto che la musica ha attinenza con il respiro e si respira anche quando si sta zitti… Io non ho frequentato Darmstadt, e non me ne faccio un vanto ma neanche una colpa. La musica, le idee arrivavano o nascevano anche qui, a Roma. Sono un compositore di area romana, direi “petrassiana”: ho studiato con Robert Mann, che era stato allievo di Petrassi. Roma, mi creda, non era Timbuctu: ci passava molta gente, a studiare o a soggiornare nelle accademie; il Goethe Institut di Michael Marschall faceva faville, c’erano bei concerti, le idee circolavano, ci abitavano artisti di tutto rispetto che del resto ancora ci abitano. 

Nel 1968 lei scrive Choralis cum figuris. Si può pensare ad un riferimento al compositore protagonista del Doktor Faustus di Thomas Mann e di conseguenza alla crisi musicale vista da Adorno in quegli anni?

Il Choralis cum figuris, che fu eseguito all’ultimo Festival di Palermo nel 1968, è anzitutto una specie di “corale figurato”. La definizione naturalmente richiama Bach e, per chi non ha molta fantasia, dirò che forse è un “corale figurato sfigurato”… Scherzi a parte, è una composizione che forse esemplifica quella “sospensione” o “attesa” della quale parlavo prima, una poetica che non per caso approderà ad un pezzo per metronomo e strumenti, A tempo comodo, scritto tra giuoco e riflessione e ad altri lavori… Comunque la suggestione dell’Apocalypsis di Adrian Leverkuhn certo c’entra: negli anni precedenti avevo letto gran parte dell’opera di Thomas Mann. I Buddenbrook mi fecero compagnia in treno nel 1958 in un interminabile viaggio da Catania a Stoccolma…

In questa prima fase del suo lavoro che tipo di obiettivi si proponeva? Sentiva l’esigenza di trovare una sua strada?

Certo, forse è col senno del poi che uno rilegge le proprie partiture giovanili come ricerca di un’identità non ancora chiara. Quando si è giovani ci si può credere dei padreterni. La ricerca, le scelte e, dirò da contemporaneo di Pirandello, i dubbi, sono insiti nel fare arte. Anche quando si dà l’impressione di fare l’accademia di sé stessi, non è sempre così; spesso nell’apparente ripetizione c’è un ricercare a volte anche con pignoleria. Non che sia “pignola” la pittura di Morandi, per esempio, ma in decine di opere, forse centinaia, Morandi ha dipinto le ciotole, i vasi e le bottiglie che teneva nel suo studio. Ma per rispondere più precisamente alla sua domanda le dirò ancora che partiture come Mould o il Quintetto in quattro parti, cose che pochi ricordano, diciamo che alludono, in un certo senso, al silenzio; e dirò pure che ho a volte eluso alcuni aspetti specifici della ricerca e del comporre, chiamando in causa altre discipline. Fu così che scrissi per la Biennale di Venezia nel 1972 una “cosa” di teatro musicale, Sylvia Simplex, dove la musica, con due interventi di un soprano, era tappezzeria e la parte del leone la facevano una conferenza recitata da Carlo Cecchi e un diluvio di immagini proiettate, compreso un cartone animato… Poi mi parve di ritrovare il piacere, il senso di fare dialogare gli strumenti, e così sono partito con le prime composizioni di un ciclo cameristico, Carteggio, ma anche con lavori sinfonici. Le vigne di Samaria per coro e orchestra è del 1974.

In che rapporti sono i riferimenti visivi e letterari con le sue partiture? Si può parlare di musica descrittiva o a programma?

Mi pare sia chiaro a tutti quelli che hanno seguito il mio lavoro che io sono un musicista “impuro”; la mia musica non ha quella specie di compattezza ideale delle grandi opere del nostro tempo; dirò che è permeabile, accetta di riflettersi in suggestioni, in sollecitazioni esterne, però è ovvio che le ragioni musicali dominano, e se la permeabilità può essere causa di una predisposizione alla fragilità o meglio alla vulnerabilità, non direi che il richiamo, soprattutto nei titoli, a riferimenti visivi o letterari la faccia diventare descrizione o programma. C’è un esempio molto chiaro: la mia seconda partitura per flauto e orchestra (che vedi caso ho scritto per Angelo Persichilli, suo padre, nel 1985) è naturalmente una composizione che risponde ad una logica strettamente musicale, ma ha un titolo che, pur nella suggestione di un accademismo e del richiamo ad un luogo della mia mitologia personale, descrive la sua forma, una forma, appunto, totalmente ascrivibile alla logica musicale del pezzo: una presenza, una lenta sparizione, una assenza, una lenta riapparizione, una rinnovata presenza. Certo, dette in questo modo le cose finiscono anche per far ridere, per l’alto tasso di banalità: ma quello che conta è cosa c’è poi sul pentagramma…

Considerando le sue composizioni, si trovano spesso temi ricorrenti; alcuni, come la foresta e il bosco, mi hanno colpito molto, perché mi sembrano entrambi riconducibili ad un’unica idea, quella dell’ornamento e dell’intrico…

Ovviamente l’’eventuale infittirsi del discorso fa parte dell’andamento della forma musicale. Io che per diletto ho anche fatto l’incisore e il miniaturista, ho una propensione a giocare con l’intrico, anche molto complicato, ma cercando di vederlo con la maggiore chiarezza possibile. A proposito di una partitura dedicata nel 1976 a Camillo Togni (che oltre a essere un grande compositore era un esperto botanico, la partitura si intitolava Hortus fragilis) citavo nel programma di sala la “grande zolla” di Dürer, intricatissima ma delineatissima, guardata quasi con spirito scientifico.  Ci sono spesso momenti, nei miei lavori, dove la materia, i suoni, le linee, si infittiscono e mi piace muovermi con disinvoltura nella boscaglia… Fuori di metafora, anzi uscendo da un metafora per entrare in un’altra, faccio un esempio: Angelica in bosco è il titolo di un mio concerto per arpa e orchestra; naturalmente si allude alla fragilità  dell’arpa in mezzo alla selva degli strumenti dell’orchestra, ma si cita anche l’Ariosto e lo Zanzotto del “Galateo in bosco”, e si ricordano così anche due “scritture” alle quali mi piacerebbe che in qualche modo la mia scrittura musicale somigliasse. Forse la risposta è un po’ confusa… ma è questa. Di sguincio, e a proposito dell’Ariosto e del bosco, vorrei ricordare qui una partitura alla quale tengo molto e che pochissimi conoscono: Intonazione per foresta ariostea per tromba e orchestra che con la voce recitante di Ottavia Piccolo e la tromba di Gabriele Cassone fu eseguita dall’Orchestra dei Pomeriggi Musicali.

Rimanendo sempre nel tema dell’’ornamento, vorrei chiederle perché in Autobiografia della musica contemporanea a cura di Michela Mollia, conversando con se stesso, ironizza sulla sua musica arrivando a definirla “decorazione pura”.

Ma, guardi, questa cosa dell’ornamento è certo legittima: dalla superficie dell’insieme sonoro nella mia musica emergono ogni tanto arabeschi, vorrei dire come quelle spume sulle onde quando nel mare Jonio tira il grecale, una “propensione”, si dice. E’ vero, io ho anche favorito questa idea con quella nota sul libro di Michela Mollia: nota che andava forse letta, come lei ha fatto, con l’ironia con la quale era stata scritta, ma che forse non traspariva. Comunque, vorrei dire che forse c’è dell’altro in quello che scrivo, o almeno me lo auguro.

Ci può parlare delle sue composizioni scritte per il teatro?

Ho scritto tre cose di teatro musicale con cadenza decennale. Di Sylvia Simplex abbiamo già parlato. Nel 1981 scrissi la Descrizione dell’Isola Ferdinandea, sulla storia di quest’isola emersa nel mare della Sicilia, desiderata da molti e poi scomparsa.

Mi sembra il contrario dell’idea formale di Eclisse a Fleri…

Sì, è vero, solo che qui l’opera si articola in sette scene nelle quali più che l’accadimento o il fatto, viene cantato il commento al fatto. Astrologi, pedagoghi e personaggi allegorici dicono ognuno la sua. Insomma è un teatro di commento, dove i personaggi non cantano le proprie passioni.

Allora si può parlare di teatro celebrativo?

Tenga conto che la scena più importante è un concerto, una cantata che viene eseguita al cospetto di Re Ferdinando e della corte, quindi, sì, una specie di celebrazione…

Si può considerare teatro celebrativo anche L’’esequie della Luna?

Questa è un’opera più complessa. Già nel testo di Lucio Piccolo, che è alla base del libretto di Roberto Andò, scorrono molte inquietudini, pulsano rimandi figurativi e letterari assai intriganti. La Sicilia dei Viceré, il barocco trionfante che collima con il disfacimento della forma, la “luce stregata”, come dice Gesualdo Bufalino, che è netta e che ha nette le ombre, sono tutte cose che concedono, nella conclusione, solo piccole speranze. La partitura poi è molto articolata e credo aderente soprattutto al clima della poesia di Piccolo che la mia musica peraltro aveva incontrato spesso.

Quanto è stato influenzato dall’essere nato in Sicilia, una terra dove la tradizione popolare e quella mitologica del mondo classico sono così forti?

Certamente l’essere nato e cresciuto in Sicilia, dove tra l’altro torno spesso, nutre le suggestioni che girano intorno al mio tavolo di lavoro. Ecco, quando le dicevo che sono un musicista “impuro” certo mi riferivo a questo coltivare le suggestioni. Suggestioni che vengono, come lei diceva, dalla cultura popolare e dal mito che in certi casi integrano. Io sono nato  ad Acireale, il luogo del mito di Aci e Galatea, e un’indomabile umidità che c’è nelle cantine di casa mia si ritiene in famiglia sia dovuta al fiume Aci, al quale ho dedicato una specie di opera radiofonica su testi di Ovidio e Gongora e con le interferenze del dialetto dell’abate Meli, il grande poeta siciliano.

Perchè, in un periodo in cui l’’avanguardia ha messo in crisi le forme classiche, lei sceglie di comporre per solista e orchestra?

Ho accennato ad alcune partiture per solista e orchestra che ritengo tra le cose migliori che ho scritto. Lei ha ragione, quando io esordivo negli anni ’60, la formula del solista con orchestra era quasi un tabù, come l’opera, forse perché il ruolo del solista, la sua immagine in tight in mezzo all’orchestra e la richiesta di funambolismo, era il contrario del rigore che lo strutturalismo evocava; magari poi si chiedeva nel solismo cameristico un funambolismo al quadrato… Poi Maderna, Petrassi con il concerto per flauto, e Donatoni con Puppenspiel II, ripresero a considerare la possibilità della formula più che della forma. A me piace contrapporre l’impegno di un singolo con la coralità dell’orchestra nella quale trova echi, risonanze e raramente contrapposizione, e poi queste partiture sono state altrettanti omaggi a solisti di altissimo valore che ho avuto e ho il piacere e l’onore di contare tra i miei amici.