Al momento stai visualizzando Luis De Pablo

Quando è avvenuto il suo primo incontro con la musica?

All’età di quattro anni ho capito subito che il mio ruolo nella società era legato alla musica. Anche se ho portato a termine i miei studi universitari laureandomi in legge, le mie idee sono sempre state orientate verso esperienze musicali, prediligendo soprattutto quelle compositive. Non mi sono mai visto né come  musicologo né come esecutore; ho sempre suonato qualche strumento perché penso che sia una attività fondamentale, ma al centro dei miei interessi c’è sempre stata solo la composizione. Credo che tutto questo si possa spiegare con una sola parola: vocazione, un termine che viene usato per spiegare i meccanismi misteriosi delle nostre attitudini.

Ho cominciato a studiare, intorno ai sette anni, prima il solfeggio e poi il pianoforte, in un piccolo paese basco, Fuenterrabìa, dove esisteva un centro di insegnamento gestito da suore francesi; successivamente, dopo il trasferimento della mia famiglia a Madrid, è iniziato il mio studio come autodidatta, fino a quando ho deciso di proseguire i miei studi all’estero, prima a Parigi con Max Deutsch, il grande insegnante austriaco maestro di Bussotti, poi a Darmstadt, dove ho seguito, insieme a Boulez e Stockhausen, i famosi corsi estivi.

Cosa la spinse a portare in Spagna i risultati di queste esperienze, fondando il primo Laboratorio di Musica Elettronica e numerosi gruppi che hanno diffuso in tutto il paese la sua esperienza personale?

Tornato in Spagna ho pensato che fosse mio dovere presentare al pubblico spagnolo le esperienze maturate all’estero. Ho avuto la grande fortuna di suscitare l’interesse prima dell’università di Madrid, poi di un gruppo di mecenati privati, ancora adesso carissimi amici, che mi hanno aiutato sostenendo finanziariamente l’organizzazione di un ciclo di concerti. Da questo desiderio di divulgare la mia esperienza personale sono nati i gruppi di Tiempo y Mùsica e Alea, che poi hanno presentato i nostri lavori e quelli dei colleghi stranieri, in giro per l’Europa. Uno dei primi direttori d’orchestra a venire in Spagna fu Daniele Paris, che portò con sé molte delle nuove esperienze italiane eseguendo opere di Berio, Nono, Donatoni, Macchi e di tanti altri compositori che suscitarono un grande interesse.

Anche se il pubblico era sempre molto numeroso, lo svolgimento di questa rassegna fu ostacolato dalla difficile situazione politica della Spagna; così ho dovuto lasciare la mia doppia attività di compositore e organizzatore per andare all’estero. Le mie composizioni furono eseguite in Inghilterra e in Francia, poi pubblicate per la prima volta sempre in Francia e in Germania, dove ho vissuto per due anni invitato dal Deutscher Akademischer Austauschedienst.

Che importanza ha avuto nella sua carriera l’attività di insegnante che ha svolto in tutto il mondo e quindi la possibilità di trovarsi a contatto con le nuove generazioni?

Ho iniziato ad insegnare verso la fine degli anni Sessanta prima negli Stati Uniti, poi in Canada e, dopo la morte di Franco, anche in Spagna, tenendo successivamente dei corsi anche in Giappone, in Italia, in Francia e in Inghilterra.

Devo dire però che l’insegnamento ha rappresentato per me un impegno secondario rispetto alla mia attività principale che è sempre stata la composizione. Non ho mai amato seguire le rigide strutture delle istituzioni, preferisco i rapporti informali, magari attorno ad un tavolo; le cose più importanti si dicono in privato, a casa mia, dove spesso commento, insieme a giovani compositori che hanno bisogno del mio aiuto, le loro partiture.

Quale è stato il motivo che l’ha portata alla traduzione di alcuni testi di Schoenberg, di Webern e di Stuckenschmidt e al successivo interesse teorico per l’estetica musicale contemporanea?

L’impegno che mi ha portato alla traduzione di opere straniere è derivato dalla stessa esigenza che mi ha spinto ad organizzare i concerti di cui parlavo prima, cioè il tentativo di obbligare la vita musicale spagnola, per quanto mi era possibile, ad uscire dall’isolamento che si era creato dopo la guerra civile.

Volevo che la Spagna conoscesse alcuni scritti che mi sembravano particolarmente interessanti; parlando egoisticamente potevo pensare che non c’era nessun bisogno di tradurli, ma mi sono veramente sentito in dovere di divulgarli.

Il libro che ho scritto sulla tecnica compositiva che usavo in questi anni, Aproximaciòn a una estetica de la mùsica contemporànea, fu il risultato di una serie di conferenze nate dalla richiesta di un gruppo di amici, interessati alla struttura dei miei lavori, con i quali avevo degli incontri regolari.

Dai Comentarios su testi di Gerardo Diego, del 1958, al Tarde de Poetas, composto nel 1986, emerge una particolare predilezione per i testi poetici, soprattutto spagnoli; a cosa si deve questa passione per il connubio tra musica e poesia?

La poesia ha svolto un ruolo fondamentale nella mia formazione e nella mia carriera; all’età di quindici anni ho avuto come insegnante un prete cileno, un uomo di eccezionali qualità, che ha influenzato in modo determinante il mio approccio con l’arte dei versi, offrendomi la possibilità di scoprirne il fascino e i segreti.

Più tardi ho avuto la grande fortuna di conoscere personalmente un grande poeta spagnolo, Vicente Aleixandre. Il nostro incontro è avvenuto quasi per caso: era un uomo straordinario che sapeva vivere a contatto con i giovani e in loro trovava una fonte inesauribile di energia sempre fresca e nuova che impiegava nelle sue opere (basta pensare ai rapporti tra Goethe ed Eckermann, Stravinskij e Robert Craft). Ogni giovedì trascorrevo i pomeriggi , insieme ad altri ragazzi,  parlando con il grande maestro che, dopo la lettura dei suoi ultimi poemi, ascoltava le nostre sensazioni. Aleixandre, che non si è mai allontanato dalla Spagna, rappresenta il punto di riferimento non solo per me, ma per tutta una generazione di poeti spagnoli che invece furono costretti ad emigrare per colpa della guerra civile; è l’immagine stessa della poesia spagnola in quegli anni difficili.

Il primo testo che ho messo in musica apparteneva a Gerardo Diego che, oltre ad essere un grande poeta, era anche un ottimo pianista; per me è stato bellissimo trovare le due attitudini, quella poetica e quella musicale, riunite in una stessa persona. Con Diego instaurai un buon rapporto di amicizia, alimentato dalla  convinzione che per entrambi la musica rappresentava uno dei modi migliori per comunicare le nostre sensazioni. Mi colpì molto una parte della sua ricerca poetica, che risale ai primi venti anni di questo secolo, alla quale si ispirarono i miei commenti musicali. Questa è stata la prima volta che ho messo dei versi in musica; subito dopo la mia attenzione si è rivolta verso il grande poeta spagnolo Luis De Gòngora, un simbolo per tutta la generazione di poeti che, proprio in onore del terzo centenario della morte del grande maestro, prese il nome di Generazione del Ventisette. Anche per me Gòngora continua ad essere l’incarnazione stessa di un particolare e suggestivo atteggiamento nei confronti della lingua spagnola.

Non posso spiegare perché sono stato sempre affascinato dalla poesia, posso solo dire che nella mia vita ha sempre avuto un posto accanto alla musica; ho sempre amato qualsiasi forma di linguaggio; sono basco di nascita, a scuola ho studiato il francese, poi ho imparato il tedesco, l’inglese e l’italiano; il risultato è stato un interesse profondo per la struttura di tutte le lingue che parlo. Mi affascina sia il suono prodotto dalle parole che il meccanismo per cui variazioni di altezze danno luogo a significati diversi. Inoltre penso che la comunicazione verbale, essendo sostanzialmente una sequenza di suoni e di ritmi, sia strettamente legata ai modi dell’espressione musicale.

E‘ stato sempre l’interesse per la parola che l’ha spinta a tenere a Madrid, nel 1989, la serie di conferenze “La voce nella mia musica”?

La voce ha una parte importantissima nella mia musica, ed è strettamente collegata all’interesse che nutro per le lingue. I compositori spagnoli hanno sempre sottovalutato il rapporto con la parola; fino all’Ottocento sono stati influenzati in maniera evidente dalla musica italiana, soprattutto da quella operistica, poi da una fortissima presenza, durante il periodo nazionalista, del folklore. Io credo fermamente che sia molto importante considerare la lingua spagnola per quello che realmente rappresenta e non secondo i dettami di un paese straniero o della musica popolare; se dobbiamo dimostrare di essere capaci di comporre, la nostra musica deve essere frutto del nostro linguaggio, con i suoi accenti e con le sue espressioni. Si deve dare vita ad una forma musicale tenendo sempre presente gli elementi che rappresentano il bagaglio culturale che ogni uomo porta con sé dalla nascita.

In questa serie di conferenze il dato tecnico, puramente vocale non ha nessuna rilevanza; nonostante il mio amore per le tecniche vocali extraeuropee non ho mai chiesto ad un cantante che eseguiva le mie composizioni di usare una tecnica diversa da quella con la quale si era formato; un europeo non si può comportare secondo le tradizioni di una cultura completamente diversa dalla sua. La mia speranza è che comunque, fra qualche anno, la conoscenza e la pratica delle musiche extraeuropee possano diventare comuni a tutti, anche se il pubblico di oggi, condizionato eccessivamente dai suoi studi, continua a preferire solo la musica classica tradizionale.

In che modo i riferimenti alle musiche extraeuropee, numerosissimi in tutta la sua produzione, influenzano il suo modo di comporre?

La conoscenza e l’elaborazione di queste musiche è dovuta ad una mia particolare predilezione e ad un dovere etico che mi spinge alla conservazione di questo patrimonio di inestimabile valore.

I riferimenti che provengono da questi popoli da noi così lontani non prendono mai la forma di una pura e semplice citazione, come spesso ho avuto modo di sentire attraverso l’elaborazione con la tecnica del campionamento. Quando mi siedo ad un tavolo per lavorare alle mie musiche, sento chiaramente che l’influenza esercitata dalle culture diverse dalla mia si manifesta in me come un arricchimento della mia sensibilità.

Solo dopo aver riascoltato un pezzo per violoncello intitolato Ofrenda  ho capito che alcuni passaggi eseguiti dallo strumento venivano dal repertorio della musica iraniana; i suonatori di strumento ad arco di questo paese hanno una particolarissima tecnica di esecuzione che consiste nel muovere lo strumento tenendo fermo l’arco, ottenendo così dei piccolissimi melismi, velocissimi e microtonali, quasi impercettibili all’ascolto e impossibili da realizzare con qualsiasi tipo di notazione musicale tradizionale; è una tradizione assolutamente orale, non scritta, che gli iraniani tramandano esclusivamente con l’esercizio pratico. Ovviamente nella mia composizione non chiedo al violoncellista di suonare con questa tecnica, quello che all’ascolto si percepisce è l’atmosfera della musica da me sentita in Iran, che ormai è entrata nel mio orecchio e nella mia mente.

Le composizioni ispirate alla conquista del Messico e ai testi religiosi tradizionali aztechi e maya, come Retratos de la conquista o Antigua Fe, sembrano chiaramente sottolineare la sua predilezione per queste antichissime culture.

Ho viaggiato molto in America Latina, in Messico, in Argentina, in Uruguay e in Brasile, rimanendo affascinato dalla cultura di questi paesi; mi ha stregato il mistero che pervade ogni manifestazione di queste antiche popolazioni. Gli Aztechi e i Maya elaborarono una filosofia, completamente diversa dalla nostra, capace di spiegare, in modo straordinariamente moderno e affascinante, il ruolo dell’uomo nel mondo e il senso della gioia e del dolore. Con le mie musiche spero di rendere omaggio alla magia del loro pensiero.

Che tipo di legame la lega alla tradizione spagnola ed in particolare a Tomás Louis de Victoria, al quale dedica, nel 1968, Parafrasis ?

Penso che de Victoria sia il più grande compositore spagnolo; le sue opere sono esclusivamente polifoniche, e forse la loro appartenenza ad un genere molto lontano dalla sensibilità attuale ne ha impedito l’apprezzamento che invece meriterebbero. Questa riflessione mi ha fatto pensare che abbiamo qualcosa in comune, dato che anche le mie opere hanno aspettato molto tempo per essere accettate in Spagna.

Tramite Parafrasis e Eléphants ivres (preso dal mottetto di de Victoria Veni sponsa Christi ) ho voluto creare un ponte nel tempo, ritornando a quel periodo in cui in Spagna musica, pittura e letteratura erano intimamente legate. La musica spagnola di quei secoli non si discostava molto da quella del resto d’Europa, mentre tutta la produzione successiva si è orientata in maniera eccessiva verso il folklore, assumendo caratteri prima di tutto popolari e poi musicali.

Nel suo repertorio si è sempre dimostrato aperto a tendenze diverse; come è nata l’idea di uno spettacolo che vede protagonisti, accanto agli strumentisti, anche attori e mimi?

Ho avuto sempre un grande interesse per i generi misti, soprattutto quelli dove il teatro ha una parte rilevante. All’età di ventiquattro anni ho composto delle musiche (che poi ho avuto il coraggio di buttare) su un testo classico spagnolo, il libro del Bueno Amor, una specie di cantata rappresentativa molto simile alla formula teatrale di El Retablo de Maese Pedro di Manuel de Falla. Nonostante il mio grandissimo interesse per queste particolari forme d’arte, nei primi anni della mia attività ho abbandonato spesso la ricerca di una formulazione personale fino al momento in cui sono stato sicuro dei miei mezzi di scrittura; momento che è arrivato alla fine degli anni Sessanta, quando decisi di collaborare con Arraval. L’eccessiva durata del suo testo, purtroppo, mandò in fumo il progetto comune, ma mi diede l’occasione di comporre da solo il mio primo lavoro sul genere misto, che intitolai Protocollo, nel quale un recital di lieder è seguito da una esibizione ginnica, entrambe accompagnate da una musica che fa da filo conduttore.

A questo esordio seguirono Solo un Paso, Very Gentle e Berceuse, tutte opere a metà strada tra il genere strumentale e quello puramente teatrale. Nonostante la musica e l’azione drammatica non abbiano connotazioni precise, la mia preoccupazione principale è sempre stata quella di “dare da mangiare” al pubblico, senza “lasciarlo alla sua fame”, cioè di offrire sempre materiale sufficientemente ricco e capace di delineare una vera storia. In Berceuse, per esempio, sono evidenti le allusioni ad un tentativo, da parte di un uomo, di arrivare ad una donna, rappresentata da un contrabbasso (una donna gigante), tutto svolto in un’atmosfera tra il comico e il drammatico, direi agrodolce.

L‘organico strumentale delle sue composizioni prevede spesso l’uso di strumenti insoliti, sconosciuti alla tradizione colta; ci può fare un esempio che spieghi queste scelte così inusuali?

Forse uno degli strumenti che mi affascina maggiormente è la txalaparta, uno strumento basco a percussione che all’origine serviva per fare il sidro. Due esecutori percuotono dei pezzi di legno facendo rimbalzare delle grosse bacchette, creando un ritmo inizialmente molto semplice che poi viene modificato in maniera straordinaria dall’entrata di un altro ritmo sincopato. Si instaura tra i due txalapartari un dialogo improvvisato regolato però da canoni ben precisi. Nella mia composizione Zurezko olerkia ho impiegato la txalaparta insieme ad un coro e ad un gruppo di strumenti a percussioni sempre in legno, lasciando improvvisare i due txalapartari secondo la loro tradizionale pratica esecutiva.