Lei vive ormai da più di cinquant’anni in Italia. Per quale motivo ha lascito il suo paese d’origine, gli USA, per trasferirsi nel nostro?

Sono venuto in Italia nel ’48, dopo essermi laureato in musica all’Università del Michigan; negli Usa non esiste il conservatorio come in Italia, quindi le materie musicali si studiano all’università. Avevo un insegnante di composizione canadese che aveva studiato a Vienna, così, incoraggiato da lui, ho pensato di andare anch’io in quella città. Per fortuna avevo ottenuto una borsa di studio che gli Stati Uniti davano agli ex soldati che erano stati sotto le armi e che sono riuscito a ottenere perché durante la guerra ero stato ufficiale di Marina, anche se non ho mai partecipato ai combattimenti perché sono arrivato a Okinawa il primo giorno di pace.

Sono venuto in Europa con l’idea di studiare a Vienna con Joseph Marx, un glorioso esponente della scuola di composizione accademica viennese. Invece, arrivato a Salisburgo che era la mia prima tappa europea, scoprii che non avrei potuto rimanere a Vienna perché nella città, dopo la guerra, gli studenti stranieri erano accettati difficilmente. Improvvisamente mi sono ritrovano orfano di questo progetto, perciò, dopo aver trascorso a Salisburgo il mese di agosto, decisi di trasferirmi a Basilea, anche se il conservatorio avrebbe aperto solo a ottobre. Nel frattempo, girando per Salisburgo, avevo avuto modo di conoscere uno strano tipo, una sorta di avventuriero che parlava tutte le lingue; così mi accodai a lui, che conosceva bene anche l’italiano e, inseguendolo come una meteora che passa all’improvviso, sono venuto in Italia.

E i suoi studi con Frank Martin?

Ho incontrato Frank Martin a Salisburgo, dove si trovava per allestire una sua opera al Festival organizzato nella città. Con lui ho avuto solo brevi incontri, poiché ho frequentato solo un suo corso estivo, e in una sola estate non si può apprendere molto. Credo che i corsi si seguano per il prestigio che ne deriva e per arricchire il proprio curriculum. Tra l’altro allora non sapevo neanche bene chi fosse Frank Martin.

Com‘è arrivato a Roma?

Dopo essere stato a Venezia sono arrivato a Roma, dove pensavo di fermarmi per una settimana. Spesso il caso ti cambia la vita, non si sa mai cosa può succedere. Ricordo che ero stanco di viaggiare e mi piaceva molto l’atmosfera romana, così mi sono informato e ho visto che potevo sfruttare la mia borsa di studio presso una scuola di lingue che accoglieva borsisti stranieri. Attraverso questa scuola sono riuscito a contattare Barbara Giuranna con la quale ho deciso di studiare composizione perché conosceva bene l’inglese. La Giuranna è stata straordinaria perché, ritenendo che io fossi avanti con gli studi musicali, rinunciò al guadagno che poteva derivarle dalla mia borsa di studio (notevole soprattutto per qualsiasi romano che aveva passato la guerra) e mi mandò a studiare da Petrassi.

Che influenza hanno avuto i contatti con Petrassi per la sua formazione?

Incontrai Petrassi nel 1948 quando era appena tornato da Budapest, dove era andato per una celebrazione di Bartók in una delle sue prime uscite dopo la guerra. Mi ricordo che mi raccontò di aver conosciuto un altro giovane americano che secondo lui ballava troppo sul podio: era Leonard Bernstein.

A partire dagli studi con Petrassi, che sono durati per quattro anni, la mia vita si è normalizzata. In quel periodo vivevo a Roma con una famiglia che mi aveva accolto in casa mettendomi a disposizione anche un pianoforte. Mi ricordo un freddo cane… Petrassi, inoltre, ebbe l’idea geniale di farmi cantare con il prestigioso coro della Filarmonica Romana, diretto da Luigi Colacicchi, dove ero l’unico straniero. Era una formazione di tutti dilettanti appassionati di musica, provenienti dalla buona borghesia romana. Ricordo Remo e Alberto Pironti, Emilia Zanetti, Renata Bertelli, Gianfranco Maselli, con il quale siamo diventati molto amici; tutti mi prendevano sempre in giro per il mio italiano molto approssimativo. Quando Luigi Colacicchi ha lasciato l’incarico la direzione del coro è stata affidata a me per un anno.

Ho voluto raccontare i particolari della mia vita romana per spiegare come, nel momento in cui si trova un terreno familiare ci si stabilizza: io mi sono spesso paragonato alla patata che cerca la sostanza nella terra e ci mette le radici. Così, dopo sette anni, mi sono detto: “il tuo cervello vive ancora dentro una valigia”; ho disfatto la valigia e sono rimasto a Roma.

Quanto tempo credeva di rimanere a Roma?

Pensavo di rimanere due anni, grazie alla borsa di studio, invece eccomi qua.

Non è più tornato in America?

No, anche perché il viaggio era molto costoso. Sono tornato a casa dopo quattro anni, nel ’52, e poi di nuovo solo sei anni fa, dopo quasi quarant’anni, ma senza visitare i luoghi familiari. Non avevo grandi curiosità, ero abbastanza distaccato da tutto e non ho avuto mai nostalgia, perché ero felice dove mi trovavo.

Com‘era la sua vita di studente straniero?

Molto interessante; allora a Roma potevo vivere abbastanza facilmente grazie alla borsa di studio e potevo anche permettermi di andare ai concerti dell’Accademia di Santa Cecilia in quegli anni organizzati al Teatro Argentina, perché il biglietto in loggione costava come un francobollo. A Roma c’era un ambiente concertistico eccezionale: oltre a Santa Cecilia c’erano i concerti alla Filarmonica e alla Radio, dove ho ascoltato un concerto di Bruno Walter straordinario.

Che differenze ha trovato tra la didattica americana e quella italiana?

Purtroppo non conosco così bene la situazione didattica americana perché ho passato in Marina gli anni solitamente dedicati allo studio. Quando sono tornato dall’esperienza nella Marina, nonostante avessi solo vent’anni, ero già ufficiale da tre anni, quindi avevo raggiunto una certa maturità. Per questo motivo il mio approccio allo studio non era quello di uno studente; tra l’altro mi capitava spesso di conoscere già l’insegnante dei corsi, il che mi permetteva di avere un rapporto particolare.

Gli Stati Uniti danno molta importanza allo sport, al football in particolare, mentre ci si cura poco della cultura in generale. Per avere successo nella vita, ma anche semplicemente con le ragazze, bisogna essere sportivi. Per questo motivo, quando studiavo all’Università del Michigan, mi vergognavo di essere musicista e soprattutto di non essere assolutamente sportivo.

Questa è stata una delle ragioni per cui appena arrivato in Europa, dove i musicisti erano veramente apprezzati, mi sono sentito a casa mia. Quando sono arrivato a Salisburgo, terrorizzato perché avevo studiato il tedesco per modo di dire e non conoscevo nessuno in quella bellissima città, mi hanno assegnato a una famiglia non benestante che aveva bisogno di ospitare qualcuno per vivere. La famiglia mi accolse con un pranzo che sicuramente rappresentava un sacrificio in rapporto alle rigide condizioni economiche in cui viveva. Questo banchetto era stato organizzato solo perché avevano un musicista in casa. Venendo da una situazione opposta ho pensato che finalmente ero a casa mia, perché in quella città essere musicista era considerato un onore.

Lei ha occupato per anni la carica di segretario della Società Internazionale per la Musica Contemporanea (SICM). Ci vuole parlare degli intenti di questa associazione?

La SIMC è una gloriosa istituzione, nata nel 1925, che aveva temporaneamente sospeso la sua attività durante la seconda guerra mondiale per riprenderla eleggendo Petrassi presidente. Con grande fantasia, nonostante la mia giovane età, Petrassi mi nominò segretario generale dell’associazione. Da quel momento mi ritrovai a girare l’Europa in occasione dei festival che l’associazione organizzava ogni anno in un paese diverso. Dopo quattro anni Petrassi decise di dimettersi e l’incarico passò a Henrich Strobel, critico musicale e appassionato di musica moderna che dopo la guerra si era trasferito a Baden-Baden, città molto vicina alla Francia e dall’atmosfera poco tedesca. Con l’elezione di Strobel a presidente della SIMC Baden-Baden si trasformò in un grande e prestigioso centro musicale. Inizialmente io lavoravo per lui a Roma e mi recavo al festival una volta l’anno; poi Strobel sentì l’esigenza di dirigere l’attività dell’associazione da vicino, quindi trasferì tutto nella cittadina tedesca.

Che ricordi ha della sua attività all’interno della SIMC?

L’attività che ho svolto all’interno della società è stata straordinaria, soprattutto in rapporto all’età che avevo. L’associazione ha organizzato prime esecuzioni importantissime, tra le quali Moses und Aron di Schönberg, il Concerto per violino di Berg e la prima mondiale di Le Marteau sans maitre di Boulez. Ricordo che questa composizione mi fece una impressione incredibile: era totalmente estranea a quello che si era ascoltato fino a quel momento, aveva una tale carica da lasciare assolutamente stravolti: non si poteva né accettare né respingere, si rimaneva semplicemente stravolti. Le Marteau sans maitre ha avuto molta influenza su di me, allievo di un maestro come Petrassi che in quel periodo era ancora legato alla lezione neoclassica e non era ancora arrivato alla Serenata. Per un giovane come me era straordinario essere coinvolto in scoperte del genere.

Che peso hanno avuto per lei queste esperienze?

Mi hanno cambiato molto. Se avessi avuto un carattere diverso forse avrei potuto approfittare della situazione ma non l’ho fatto. Ho sempre distinto l’attività di compositore da quella di segretario dell’associazione, in parte perché temevo, forse giustamente, che quello che facevo io non sarebbe stato accettato dalla società. La SIMC era stata fondata da Strauss, Ravel, De Falla, Schönberg a rappresentare le diverse espressioni della realtà musicale contemporanea; dopo la seconda guerra mondiale, invece, era diventata portavoce di un solo pensiero musicale dal quale io mi sentivo estraneo.

Comunque tutte queste esperienze musicali, insieme alla conoscenza di persone straordinarie, hanno significato per me un enorme arricchimento culturale: era come stare al centro di un universo di grande potere, perché la musica moderna dopo la guerra aveva un peso enorme. A Roma, per esempio, l’attività musicale contemporanea era straordinaria, c’era un grande entusiasmo dato dalla ricchezza di prime esecuzioni.

Per quale motivo secondo lei la situazione musicale è cambiata in modo negativo?

Probabilmente è crollato tutto perché l’atmosfera dell’ambiente musicale nasceva da una reazione alla guerra, dall’euforia di essere liberi di fare quello che si voleva. Non bisogna però pensare che il pubblico fosse diverso da quello di oggi: le reazioni erano le stesse di adesso e, anche nei momenti di maggiore entusiasmo, non c’è mai stato un pubblico preparato, per non parlare poi dell’ostilità  dei critici.

Il suo modo di comporre ha risentito di questa atmosfera di grande fervore?

Dopo questo periodo dedicato all SIMC ho sentito che non potevo più comporre, che non avevo più gli strumenti per farlo. Avevo cominciato a capire molto bene la musica moderna, anche l’avanguardia, ma non avevo gli strumenti per realizzarla.

Così, ad un certo punto, ho smesso di scrivere per quasi un decennio, dai trenta ai quaranta anni, il periodo in cui generalmente un compositore è più attivo. Non ho composto quasi più niente e pensavo che fosse finita così, anche perché ero uscito completamente dall’ambiente musicale, anche se non dalla musica.

In che modo si è accostato di nuovo alla composizione?

Trascorsi questi dieci anni, ho ricominciato a comporre molto lentamente grazie a Mario Bortolotto, direttore artistico del festival di Bergamo e Brescia e poi della Rai di Napoli, che mi chiese, forse per simpatia, di scrivere dei pezzi. Così ho scritto una composizione per clavicembalo dedicata a Mariolina De Robertis e delle trascrizioni di nove lieder di Schumann per voce e orchestra. Ricominciare dopo una lunga assenza però non era facile, perché mentre Bortolotto era un amico e mi stimava, per gli altri non esistevo, ero come un principiante. Ho accettato questa situazione per un po’ di tempo, poi mi sono stancato di non esistere per il mondo musicale che mi circondava. Ho deciso di reagire quando Giuseppe Scotese, direttore artistico di Nuova Consonanza, organizzò una serie di concerti monografici sui compositori romani escludendomi ovviamente dall’elenco. A questo punto scrissi una lettera a Scotese con copie a tutto il mondo musicale, a Pennisi (che ha risposto il giorno successivo), a Mariolina De Robertis, a Petrassi., a Clementi… Non volevo più essere invisibile… Scotese rispose solo dopo due mesi dicendomi che era molto dispiaciuto ma che nessuno aveva mai portato alla sua attenzione la mia musica. In questo aveva ragione perché le mie partiture non erano stampate, quindi nessuno conosceva né me né le mie opere. In seguito a questi colloqui è stato eseguito per Nuova Consonanza un quartetto d’archi che ha avuto moltissimo successo. In quella occasione Scotese si domandò dove era stato questo Robert Mann per tanto tempo, e Francesco Pennisi ridendo rispose che era stato sempre a Roma.

La verità è che se non si fa parte dell’ambiente musicale per lungo tempo, si rimane fuori. E non ci si deve neanche amareggiare di questo. Inoltre quasi tutti i compositori, a partire da Petrassi, vengono eseguiti molto poco; e questa situazione generale è scandalosa.

Cosa pensa della cultura musicale di oggi?

Tra le altre cose adesso c’è una nuova generazione che non sa scrivere per orchestra, non sa come muoversi con una grande formazione e questa situazione della cultura musicale ha ripercussioni su tutta la cultura musicale, ovviamente. Qualche anno fa Donatoni mi aveva detto che componeva solo per orchestra da camera perché non era possibile lavorare un anno intero ad una composizione per orchestra che poi viene eseguita una volta sola e male per mancanza di prove.

Perciò la difficile situazione della cultura musicale non è dovuta solo alla scarsa preparazione ma anche alla mancanza di un habitat culturale. Ho sempre pensato che questo fosse solo un problema italiano, perché abito qui, ma so che negli Stati Uniti la situazione è simile, perché le istituzioni musicali sono tutte fondazioni private, quindi ha voce in capitolo solo chi ha molti soldi. In passato tutte le orchestre eseguivano il repertorio contemporaneo, adesso non si fa più neanche la musica del Novecento storico.

Quando Boulez è venuto a Roma Il Messaggero ha dedicato una pagina a quattro colonne a Morricone, lasciando in un angoletto la notizia del concerto di Boulez. Qualcosa non funziona, non è possibile, questa non è cultura.

Forse il problema è sempre quello dell’educazione…

Si dice che l’Italia è il paese della musica ma non è così, non è un paese musicale, anzi, lo è meno di altri. Nell’Ottocento, per esempio, c’è stato solo Verdi, un grandissimo compositore intorno al quale però non c’era altro. La differenza è notevole se pensiamo alle correnti musicali in Russia, in Francia, in Germania, in Austria, a compositori come Wagner, Schönberg, Mahler, Debussy, Ravel, Stravinskij che vengono fuori da una cultura globale e molto attiva. Per questo motivo negli Stati Uniti, grazie anche alle radici culturali tedesche, gli studenti imparano la musica nella scuola elementare. Io, infatti, anche se sono nato in un paesino di campagna, ho studiato la musica alle scuole elementari. Se manca la cultura musicale di base non ci sono neanche le armi e gli strumenti per fare la musica.

Anni fa, su consiglio di Pennisi, avevo deciso di organizzare un corso sulla musica moderna, poi, riflettendoci, mi sono accorto che non potevo farlo, perché se non avessi insegnato prima le basi della musica tout court sarebbe stato impensabile fare ascoltare Stravinskij o Berg. Così ho deciso di organizzare degli incontri di ascolto musicale sulla musica tradizionale, e dopo anni di lavoro non sono ancora arrivato alla musica moderna.

Come sono organizzati questi incontri?

Prima di tutto ci tengo a precisare che le mie lezioni di analisi della storia della musica sono viste dalla parte del compositore e non da quella del musicologo, quindi dall’interno. Alla base del mio insegnamento ci sono la comunicazione e l’organizzazione. L’organizzazione di una lezione per me rappresenta il punto finale di un lavoro che io svolgo per comunicare le mie idee agli studenti.

Una bellissima immagine per spiegare il successo del mio modo di insegnare è nata a un mio allievo, Federico Longo, ora direttore d’orchestra. Secondo lui le mie lezioni assomigliano ad opere d’arte perché colpiscono e vengono capite a diversi livelli culturali, quindi anche senza una preparazione musicale specifica, proprio come succede con le opere d’arte.

Un altro elemento fondamentale, per me, è quello teatrale: la lezione diventa un momento magico da costruire passo dopo passo e con attenzione e si trasforma in una esperienza estetica che va al di là di quello che si impara. Durante le lezioni io leggo un testo scritto: la chiave del gioco (elemento che ritengo fondamentale per l’apprendimento) risiede nella mia capacità di lettura che deve sembrare il più naturale possibile. In queste lezioni l’organizzazione è fondamentale soprattutto nell’ascolto degli esempi musicali che propongo ai miei allievi perché devono avere un certo tempismo con il discorso che porto avanti ed essere sempre molto chiari. Quello che propongo loro è un ascolto attento che affascina molto chi non conosce bene la musica, perché permette di scoprire i meccanismi interni della composizione musicale.

Insieme agli ascolti organizzo un altro tipo di lezione nato dopo l’incontro con una ragazza canadese che chiese il mio aiuto perché quando ascoltava la musica, aveva l’impressione che questa le sfuggisse. Era così disperata che mi ero quasi spaventato, così le dissi che avevo bisogno di tempo. Dopo un po’ di tempo, invece, si ripresentò, così le proposi una serie di lezioni alle quali però dovevano partecipare almeno dieci persone. Non avendo trovato le altre persone, e vista la sua determinazione, mi convinsi a farle lezione da sola. Per lei decisi di non scrivere un testo -come ero abituato a fare- ma di preparare solo un elenco di ascolti tratti da composizioni di Bach, compositore che da una parte è estremamente trasparente, dall’altra è molto complesso. Dalla musica per tastiera, più complessa perché non si distinguono le varie voci, sono passato al Bach strumentale, con il quale è più facile percepire le diverse parti: dal primo preludio sono arrivato alla massiccia introduzione della Passione Secondo Matteo, una delle composizioni più complesse. Soltanto durante una delle ultime lezioni, senza che la ragazza avesse aver raggiunto grandi risultati, mi sono accorto che piangeva e mi disse: “ho sentito”. Mi è venuto un brivido, perché queste sono le grandi soddisfazioni dell’insegnamento. Venuti a conoscenza di questa storia molti miei amici hanno voluto che organizzarsi altri incontri di questo genere ai quali al massimo possono intervenire dieci persone che possono partecipare attivamente allo svolgimento della lezione.

Dopo Bach, per la seconda serie di lezioni sono partito da un’idea apparentemente semplice ma che invece è molto ricca: la chiave del gioco della musica è la ripetizione. Se si percepiscono le ripetizioni significa che si sa ascoltare la musica.

Nel contesto verbale la ripetizione è considerata negativa, mentre in musica è fondamentale per la comprensione. Durante questo ciclo di lezioni sono partito dalla ripetizione, per arrivare all’imitazione, infine al canone come forma di imitazione organizzata e alla fuga. La lezione sulla fuga è iniziata con Bach per concludersi con la Musica per archi, percussioni e celesta di Bartók che, nonostante la complessità, è stata accolta dai miei allievi con entusiasmo.

Come si comporta con gli allievi di composizione?

Per il mio insegnamento è fondamentale lo studio dell’armonia tonale, che con me diventa un’avventura culturale interessante, non uno studio noioso. Prima di tutto, quindi, l’armonia non fine a se stessa ma per poter analizzare la musica del passato. Il mio corso inizia dalle invenzioni a due voci di Bach, perché la sua musica è semplice e perché Bach è il primo grande compositore moderno. Sin dalla prima battuta, anche nei più grandi lavori, Bach dichiara quale sarà il contenuto dell’intera composizione. Se si capisce la prima misura tutto il pezzo diventa la conseguenza di questa; Bach è una scuola eccellente per i compositori.

Tra i miei allievi c’è stata un’unica eccezione, Flavio Troiani, l’oboista del quartetto Echos: con lui questo tipo di studio non andava bene perché il suo pensiero musicale andava oltre Bach. Con Flavio ho pensato di impiegare un mio metodo di composizione che non avevo mai utilizzato per l’insegnamento, che funziona per me molto bene per l’organizzazione del materiale musicale. Passato questo metodo a Flavio il risultato è stato fantastico, è emersa una fertilità compositiva straordinaria, quasi imbarazzante.

Dopo questa esperienza mi ha molto impressionato leggere che Schönberg aveva inventato il sistema dodecafonico per se stesso: il suo insegnamento, infatti, era tradizionale. Solo ad un certo punto ha deciso di divulgare il sistema anche agli allievi. Questo mi ha fatto molto piacere.

Tornando alla didattica, tra i suoi allievi spicca il nome di Francesco Pennisi. Come vi siete incontrati?

Sono diventato insegnante di Francesco grazie a Teresa Sarocchi, una delle figlie delle della famiglia che mi ospitava a Roma e che suonava con un quartetto femminile di arpe che girava l’Italia, una formazione molto innovativa per l’epoca. Nel nostro rapporto è sempre stato presente il lato pittorico. E’ un elemento interessante perché anche Petrassi amava molto la pittura e io, per un certo periodo, ho dipinto dei quadri. Con Francesco, per un anno, abbiamo portato avanti le lezioni di composizione per corrispondenza, perché lui era dovuto tornare in Sicilia. Ricordo che le sue lettere, nelle quali mi scriveva -in un italiano quasi arcaico- anche di come trascorrevano le sue giornate, erano ricche di disegni bellissimi.

I suoi esordi non sono stati facili, in parte perché non aveva frequentato il conservatorio, poi perché aveva studiato con un insegnante come me, lontano dall’ambiente accademico dove era considerato un dilettante. La situazione per Pennisi è cambiata quando è stato eseguito alla Biennale di Venezia Carteggio, una composizione lunga che ha ottenuto un molto successo. Da quel momento il suo nome è cominciato ad entrare nell’ambiente musicale, ed è stato favorito perché fa parte di una generazione con pochi compositori che segue quella alla quale io appartengo insieme a Berio, Boulez, Clementi.

So che nella sua classe ci sono altri allievi particolari…

Tra i miei allievi ci sono due critici musicali: Sandro Cappelletto e Guido Barbieri, che si sono rivolti a me per studiare prima armonia e poi analisi musicale. Con loro ho avuto un rapporto bellissimo:  venivano qui stanchi dal lavoro per ascoltare e analizzare le invenzioni a due voci di Bach. Mi hanno detto che per loro è stato come respirare perché durante le mie lezioni si divertivano e riuscivano a rilassarsi dopo un intenso lavoro intellettuale.

La musica nasce per piacere, mentre in Italia, dopo anni di conservatorio spesso la passione viene uccisa, e per me questo è un delitto. Io non ho mai perso l’amore per la musica, adoro tutti i generi musicali e mi piace parlare della musica e pensare continuamente ai problemi legati a questa. Essere insegnante, da questo punto di vista, è un privilegio perché con gli allievi si cerca di capire la musica che comunque rimane un mistero.