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Ho avuto la fortuna di incontrare Sylvano Bussotti nella sua splendida villa a Genazzano di Roma, in una bellissima giornata autunnale.

Firenze, luogo d’arte e di grandi tradizioni. Quale importanza ha avuto nascere in una città dalpassato così importante?

Mi coglie in un periodo in cui sto meditando sul mistero: mentre la scienza ha largamente debellato qualsiasi incertezza fornendo spiegazioni veramente a tutto, a me sembra, viceversa, che rimanga un margine misterioso particolarmente vasto, al quale gli artisti siano più sensibili. Se dicessi che non credo in maniera assoluta alla predestinazione, se facessi lo scettico sull’importanza di certe date, di certi luoghi e di certe configurazioni, mentirei perché, pur avendo lasciato Firenze da parecchio tempo, continuo ad avere con questa città un legame profondo che è più grande di me.

Mi manca comunque un rapporto diretto con Firenze, nonostante ci sia nato, tra l’altro in una circostanza speciale: la mia famiglia, proprio in vista della mia nascita, si trasferì da una casa periferica a una centrale a due passi da Palazzo Vecchio, in una stradina dove c’era, sempre per restare in tema di predestinazione, la bottega di un liutaio; sin da piccolo vedevo i suoi violini esposti in vetrina.

Ma le mie origini non sono solo fiorentine, sono un tosco-veneto, e proprio il rapporto con Padova, anche linguisticamente parlando, mi ha arricchito moltissimo; parlo benissimo il veneto antico: posso recitare Ruzante anche a memoria. Sin da piccolo, essendo entrambi i miei genitori di origine rurale, contadina, c’è sempre stata una forte presenza dialettale, sia toscana che veneta; mi divertivo molto a giocare con questi idiomi, anche se devo ammettere di aver avuto, come si suol dire, una particolare “predisposizione d’orecchio”.

La sua carriera di musicista è cominciata con lo studio del violino…

La storia del mio studio del violino sembra un capitolo di un libro di De Amicis; da giovane mia zia Maria trascorreva le “vacanze in spiaggia” in un convitto sulla laguna, dove venivano accolte solo fanciulle illibate. Avendo quattro anni, un’età ancora innocente, riuscii a stare con la zia per una settimana, perché il mare mi avrebbe fatto bene. Pare che mi comportassi in maniera molto strana, facendola un po’ arrabbiare, perché non pensavo assolutamente alla salute e stavo ore e ore incantato ad ascoltare una violinista americana di nome Hilde (che io ricordo bellissima e bionda), anch’essa ospite del convento. Quando Hilde studiava non volevo più andare in spiaggia e trascorrevo tutto il mio tempo con lei. A questo punto arriva l’aspetto poetico della vicenda: la violinista scrisse una lettera alla sua insegnante di violino che viveva a Firenze e che, un bel giorno, circa un anno dopo questa estate marina veneta, si presentò a casa mia. Quando aprii alla porta di casa vidi una dama meravigliosa, tutta vestita di viola, di un’eleganza straordinaria. Al ritorno di mia madre la signora le mostrò la lettera di Hilde, nella quale c’era scritto che stava per chiudersi in un convento di clausura. Questi ordini religiosi consentono di esprimere un ultimo desiderio mondano, e l’ultimo desiderio di Hilde era che io studiassi musica, che diventassi un violinista. Tra la mamma e la signora nacque subito una grande simpatia, che poi è durata per tutta la vita di entrambe, e così, dato che in effetti la signora aveva trovato in me del talento, ho cominciato a studiare il violino.

Cosa ricorda della sua esperienza in conservatorio?

Fui ammesso in conservatorio a nove anni nella classe di Gioacchino Maglioni, un amico del babbo. Mio padre con la musica aveva un rapporto molto modesto ma fondamentale. Fin dalla fondazione del Teatro Comunale, che si chiamava così proprio perché dipendeva dal Comune, mio padre ha lavorato come maschera e il mio amore per la musica così grande è in parte dovuto al fatto che già da piccolissimo andavo quasi sempre a tutti gli spettacoli, provando delle emozioni incredibili.

Del conservatorio ricordo un episodio abbastanza significativo: quando Maglioni mi chiese di fargli sentire se ero intonato, gli risposi che potevo cantare “Celeste Aida”, perché avevo visto l’opera pochi giorni prima. Pare che fui notevolmente intonato e preciso. All’esame di ammissione, poi, fui beneficiato da un fatto del tutto inimmaginabile oggi: il passaggio di una autovettura nella strada. Allora era raro sentire il suono di un clacson, quasi un evento, e al suono di questo clacson ci fu un insegnante un po’ cattivo che mi chiese che nota era; “fa diesis” risposi io, ed era giusto perché avevo l’orecchio assoluto, così sono stato ammesso al conservatorio.

Quando ha conosciuto Luigi Dallapiccola e che peso ha avuto questo incontro?

Mio padre, che era entrato in Comune piccolissimo, sapeva far disfare in poco tempo un matrimonio che la Sacra Rota impiegava anni ad annullare. Proprio grazie a delle pratiche burocratiche Dallapiccola scriveva spesso a casa nostra quando ancora non sapevo chi fosse; recentemente ho ritrovato e conservo tutto un carteggio di documenti tra mio padre e Dallapiccola, scritto con molto affetto. Dallapiccola era una persona squisita; tutti gli anni arrivavano gli auguri di questo grandissimo musicista, al quale mio padre rispondeva con dei bellissimi acquerelli. Vedevo sempre questa firma curiosa che ha influenzato molto anche la mia.

L’incontro vero e proprio è avvenuto dopo, quando fui ammesso in conservatorio. Consideravo Dallapiccola come una specie di personaggio misterioso, prima di tutto perché era in un rapporto particolare con il modernismo, poi perché insegnava in una classe che non mi riguardava, quella di pianoforte complementare. Quando iniziai lo studio di armonia e contrappunto, nella classe di Roberto Lupi, chiesi di andare da Dallapiccola. A questo punto entrammo in un rapporto molto profondo, anche se con luci ed ombre; Dallapiccola aveva una abitudine socratica: quando i giovani allievi lo accompagnavano a casa dopo la lezione (abitava sempre in luoghi abbastanza lontani dal centro) passava ore ed ore a parlare con loro. Di queste passeggiate ho dei ricordi bellissimi: le vere lezioni erano questi momenti che mi hanno impregnato di una forte coscienza in un certo senso progressista. Ho un suo ricordo al quale tengo molto: un quadratino di carta dove Anton Webern gli aveva scritto il proprio indirizzo, con la parola “Webern” aggiunta da Dallapiccola: un doppio autografo. Molto tempo dopo, quando ho fatto il servizio militare, gli mandavo sempre delle cartoline, chiedendogli delle spiegazioni sulle sue opere, alle quali rispondeva con tre o quattro pagine di pentagrammi con tutte le serie dodecafoniche trascritte.

Che importanza hanno avuto per la sua formazione gli anni vissuti a Parigi?

E’ stata una esperienza molto importante. A Parigi sono andato a vivere per ragioni personali, attratto soprattutto dalla città. Inoltre, forse per la presenza di artisti, se pur dilettanti, nella mia famiglia (ad eccezione di mio fratello Renzo che è pittore), ho sempre avuto una grande propensione per la pittura, e in quegli anni si poteva avere un rapporto tranquillo con le opere d’arte, senza essere costretti alle code interminabili di oggi.

Fin da piccolo ho sempre amato l’arte; uno dei miei primi lavori letterari riguardava la Cappella degli Scrovegni e i famosi affreschi di Mantegna nella Chiesa degli Eremitani a Padova, che ero riuscito a vedere prima dei bombardamenti; ho ancora davanti agli occhi il bacio di Giuda. Con queste pitture ho avuto un rapporto formativo molto importante: anche dopo la guerra, quando tolsero i sacchi protettivi ma non le impalcature, mi arrampicavo fino in cima ai dipinti quasi a toccarli.

A Parigi sono andato proprio attratto dall’arte in generale, ed è stato un periodo molto bello; ho conosciuto Boulez agli esordi della sua attività di organizzatore musicale; ero presente a tutti i concerti, così ho avuto l’occasione di incontrare Max Deutsch quando era già abbastanza anziano, un uomo straordinario, che mi ha portato a conoscere direttamente le esperienze di Schönberg. A Parigi ho avuto alcuni fili diretti con l’Europa artistica e musicale che veramente contava.

Perché non si è lasciato travolgere dal postwebernismo, come ha fatto invece la maggior parte dei compositori contemporanei?

Come dicevo prima, gli interessi che mi avevano attirato a Parigi non erano solo musicali. Il mio impegno di compositore si è delineato in epoca relativamente tarda, anche se poi è saltato fuori che componevo già da piccolo (a nove anni scrivevo le Bachiane con il violino in mano). Spesso solo con il senno di poi si capiscono le proprie tendenze e si vede che anche in quegli embrioni c’era un qualcosa che aveva un senso musicale compiuto; ma ci sono voluti molti anni prima di capirlo. A Parigi conobbi Metzger, una specie di mostro di genialità mentale; anche se giovanissimo, era ritenuto uno dei grandi cervelli della Nuova Musica. Fu proprio lui a dirmi che, per farmi conoscere, dovevo andare a Darmstadt, dove si svolgeva tutto quello che riguardava la nuova musica. Per le solite questioni economiche che mi hanno perseguitato continuamente (ma che mi hanno sempre spinto a cercare) non sarei mai potuto andare a Darmstadt a mie spese e iscrivermi come chiunque; dunque dovevo assolutamente vincere una borsa di studio, alla quale si accedeva solo componendo; mi misero anche molta fretta perché c’era una scadenza, così inviai direttamente a Stockhausen i Pièces de chair. Per fare prima li scrissi su delle striscioline piccolissime di carta pentagrammata, il che determinò delle forme curiosissime sulle quali, da buon miniaturista toscano del Quattrocento, misi un gran numero di indicazioni. Stockhausen mi rispose dicendomi che le mie musiche erano molto interessanti, ma che mi ero dimenticato di mandare delle spiegazioni su come si devono eseguire, chiedendomi di andare l’estate a Darmstadt. Mi sono così ritrovato, quasi catapultato, a Darmstadt. Quando il direttore editoriale dell’Universal vide le mie musiche decise di stamparle immediatamente, aiutato da David Tudor che tradusse quello che avevo composto in una scrittura intellegibile. Di questo bruciare le tappe rimasi un po’ colpito perché non avevo percorso nessuna delle tappe precedenti. Un editore importante stampava una partitura dove, su una copertina grigia, c’era scritto solo Sylvano Bussotti Universal, l’avrebbero potuto fare per Brahms, ma non per uno sconosciuto. Inoltre mi fecero firmare 200 esemplari davanti a dei fotografi, in modo da pubblicare l’avvenimento sui giornali. Successivamente uscì un articolo di fuoco e fiamme di Stuckensmidt, già molto anziano, intitolato “La fine della musica”; l’articolo compariva sul più importante quotidiano tedesco, che aveva una tiratura mondiale, con una foto a piena pagina dei Piano Pièces (cosa rarissima perché le foto erano riservate solo agli avvenimenti di grande importanza) e del costo della partitura seguito da un punto esclamativo; il risultato fu che andò a ruba.

Quando è nato l’interesse per spettacoli che coinvolgessero anche fattori extramusicali?

Mi impegnai così tanto nell’approfondire il mio rapporto con la serialità integrale, che presto mi sembrò un discorso artificioso, anche se all’inizio non avevo in mente né il teatro né niente di simile. Mi ricordo che nelle discussioni con Metzger dicevo che in fondo, se c’era stato un progresso tra tonale e atonale, mi sembrava venuto il tempo che dal seriale si passasse all’aseriale, recuperando il passato… Il mio interesse per la scena nacque in maniera un po’ strana. Tornato in Italia le mie composizioni destavano scandalo da tutti i punti di vista, le mie opere non si pubblicavano né si eseguivano. Proprio per questa ragione gli enti lirici, che al contrario sono sempre stati a caccia di scoop, si interessarono a me. Il direttore artistico del Teatro Massimo di Palermo mi propose di mettere in scena un’opera di Puccini affidandomi prudentemente solo un atto unico, il Gianni Schicchi. La serata, inoltre, prevedeva Billy Budd di Ghedini e I Sette Peccati di Veretti, una sorta di mistero religioso coreografico con un coro che cantava dei mottetti di penitenza. Precedentemente avevo messo in scena l’opera di Veretti a Bologna, dove mi presentavo sul palcoscenico vestito da frate, scalzo, recitando una mia traduzione italiana del testo latino dei mottetti, in modo da coinvolgere il pubblico. Tra il pubblico bolognese c’era Remigio Paone, sovrintendente al Maggio Musicale, che trovò in me un talento teatrale eccezionale, incoraggiando successivamente i siciliani nell’affidarmi la messa in scena del Gianni Schicchi. Nell’ambiente musicale cominciavo ad avere una certa fama negativa, che aumentò quando fu annunciata la messa in scena di un’opera di Puccini: fin quando mi occupavo di autori viventi ancora non sorgevano molti problemi. Durante un viaggio a Parigi avevo assistito ad una rappresentazione del Gianni Schicchi e ne ero uscito molto scontento: la scenografia riportava una ambientazione quattrocentesca, il solito banale rinascimento che tutti riproducono quando si tratta di Firenze, senza pensare che l’opera è molto anteriore, il libretto specifica la data: 1299. Così pensai che le immagini giuste si potevano ricavare da Giotto; nel finale, quando Schicchi caccia tutti i parenti impossessandosi di tutti i beni, pensai di farlo entrare in scena già trasformato in diavolo, circondato dai parenti che volano intorno come demoni: realizzai così La cacciata dei diavoli da Arezzo, famoso dipinto giottesco che riprodussi esattamente in teatro. Da questa messa in scena è nato un rapporto costante con il teatro pucciniano. A Palermo un grande personaggio della musica, che aveva sentito parlare male di me e che era allarmato da questa regia, ma allo stesso tempo curiosissimo, si nascose in un palco. Era Gianandrea Gavazzeni, il quale, dopo aver visto dieci minuti della prova, trovò la mia regia geniale e molto più rispettosa delle indicazioni rispetto a quelle cosiddette tradizionali. Da quel momento nacque una grandissima amicizia.

Con Goffredo Petrassi successe esattamente lo stesso. Come tutti i giovani compositori, cominciai a mandare le mie partiture ai concorsi, generalmente vincendoli; così, quando raggiunsi i 30 anni, fecero una clausola per la quale oltre i 30 anni non si poteva più concorrere; concorreva pure Stockhausen: era ovvio che vinceva. Le mie prime vittorie erano innocenti, perché ero del tutto sconosciuto alle giurie, inoltre le partiture erano anonime. Uscì su un rotocalco un’intervista a Petrassi (quando io nel frattempo avevo fatto il Gianni Schicchi), nella quale si chiedeva al maestro cosa pensava dei giovani che osavano sfacciatamente rifarsi a Puccini come Franco Mannino che diceva di essere l’erede di Puccini, o come Bussotti, di segno opposto. Petrassi rispose che erano due estremi sospetti tutti e due, il primo troppo retrogrado e arroccato su vecchie posizioni, l’altro un giovane d’avanguardia di indubbie capacità creative. Dopodiché, da presidente di una giuria, premiò una mia partitura senza sapere di chi fosse. Quando ricevetti il premio gli scrissi un bigliettino e da allora siamo diventati molto amici.

Perché nella sua musica sono così forti il dato umano e quello autobiografico?

Quando ho cominciato ad avere dei rapporti concreti con il palcoscenico ho capito che la strada fondamentale che dovevo seguire era proprio quella che riguarda l’uomo; forse per questo la mia musica ‘parla’ e comunica lo stesso anche se non è affatto estranea ai rigori strutturalistici, che a volte, anzi, sono estremamente spinti.

Anche nelle opere più complesse dal punto di vista strutturale, più legate alle avanguardie, persino in quelle cosiddette gestuali dove si colpiscono i pianoforti, rimane la forte presenza del dato puramente umano. Oltre ad una mia predisposizione particolare, credo che dipenda tantissimo da un rapporto costante con il teatro che, dalla regia del Gianni Schicchi, non ho più abbandonato.

Nella sua produzione la voce ha un ruolo fondamentale; da dove le viene questa passione per il canto?

La risposta si ricollega a quello che ho detto prima a proposito della presenza “umana”. Nei miei sogni irrealizzati, anche se in parte sono stati realizzati, credo che volessi fare l’attore; da ragazzo ero abbastanza carino per accedere al teatro di prosa, un ambiente che ho sempre amato molto e che anche oggi continuo a frequentare.

Lavorando con Cathy Berberian ho preso coscienza della voce, dell’importanza di questo mezzo di comunicazione e del fatto che per impadronirsene è necessario uno studio tecnico approfondito. C’è una osservazione freudiana sulla voce al telefono che spiega anche il successo della radio. Freud avrebbe definito la tonalità della voce che si ascolta come l’equivalente di una carezza, le voci toccano il corpo… E non aggrediscono come invece fanno le presenze corporee.

Allora mi sono ritagliato il ruolo del “recitante” (un ruolo classico che viene da Monteverdi, dalla Camerata de’ Bardi), che non è né un cantante né un attore, per il quale ho scritto molte composizioni; ultimamente, ad esempio, una suite concertistica dal Lorenzaccio che si chiama Nuovo scenario a Lorenzaccio, dove recito e canto in francese i testi di de Musset rielaborati da me. Recentemente, a Roma, ho ripreso l’ennesima Fedra, la quinta, intitolandola Fedra’ncora, dove recito Racine. Uno dei miei ultimi lavori, che andrà in scena a Parigi, l’ho dedicato a Simonetta Puccini; è un poema che avevo scritto su Puccini a caccia a Torre del Lago quando Simonetta mi spiegava quali erano gli itinerari del nonno. Adesso ne ho fatto una composizione per fisarmonica, percussioni e voce invisibile, registrando la mia voce che narra il poema.

Ci può parlare della sua amicizia con Cathy Berberian e Luciano Berio?

Con la coppia Cathy-Luciano ho avuto un rapporto affettivo fortissimo. Quando sono tornato a vivere in Italia, dopo circa sei anni e mezzo di vita a Parigi, ho mosso i miei primi passi nell’ambiente musicale italiano proprio grazie a loro che mi invitavano spessissimo, talvolta anche per lunghi periodi, nella loro casa di Milano.

Devo dire però che più che con il maestro il mio rapporto è stato con Cathy, e si è sviluppato su un piano di incontro insospettabile o bizzarro, inconsueto, nel senso che io mi interessavo molto di più alla sua pettinatura, ai suoi abiti e lei trovava finalmente qualcuno che le desse un po’ retta, che fosse sufficientemente folle per incoraggiarla in questi suoi atteggiamenti allora repressi dalla società.

Quanto è stato influenzato dal nuovo modo di cantare della Berberian?

C’è da ricordare che il suo destino apparente non era quello di fare la cantante ma quello di essere moglie di un famoso compositore. Il debutto di Cathy avvenne grazie a John Cage, grazie cioè al fatto che John scrisse la famosa Aria con Fontana Mix in programma per la prima volta a Roma in un concerto organizzato dal gruppo milanese. All’ultimo momento la cantante che doveva eseguire l’aria non si presentò e Cathy fu chiamata al suo posto. Da quel momento nacque un genio. Ricordo bene quella serata al Piccolo Eliseo perché destò un grande scandalo; io facevo il voltapagine, probabilmente partecipando anche come secondo o terzo pianista, e ci fu una sorta di dibattito con il pubblico, con insulti violentissimi. Sono episodi che oggi non si verificano più, ma molto importanti perché le reazioni rendono più vivo il pubblico, che diventa partecipe di quello che accade.

Tornando a Cathy posso aggiungere l’importanza della sua passione per il teatro leggero che in America ha tutt’altro peso che in Europa. Si rimane stupefatti da questo: quando ho visto la prima mondiale di Jesus Christ Super Star sono rimasto incredulo di fronte al fatto che anche l’ultima ballerina era un personaggio importante sulla scena, cantando e recitando a livelli tecnici impressionanti. Cathy, che proveniva da una famiglia armena, era nata in America, quindi piena di queste tradizioni, e aveva tutto questo nel sangue. Per questo dava importanza all’abbigliamento, al gesto, alle luci: tutte cose di cui i cantanti normalmente non si occupano; mai nessun’altra cantante arrivata al suo successo aveva cantato i Beatles, le composizioni dell’Ottocento, o del primo Novecento. Era una persona di spettacolo a tutto tondo; oltre che una amicizia, abbiamo creato insieme costumi, scene, parrucche, gioielli: lei mi ha insegnato a dare a tutto questo la stessa importanza che ha un accordo suonato al pianoforte.

Cos’è per lei la memoria, alla quale ha dedicato una sua composizione?

E’ una presenza fondamentale… Proust ci ha costruito sopra un caposaldo dell’estetica del nostro tempo, una capolavoro letterario. La memoria è una specie di bagaglio che ci portiamo sempre dietro, ed è un facoltà che dovrebbe essere innata nei musicisti. La mia memoria è diversa, è una memoria “profonda”, se mi si chiede una data non la ricordo mai.

E il suo particolare amore per Mozart che ritorna spesso nelle sue opere?

Mozart rientra nel discorso sulla memoria: quando ascolto la sua musica devo fare uno sforzo, così come per Monteverdi, per rendermi conto che non è stata scritta oggi, per togliergli la patina del linguaggio che era utilizzato dai compositori a quell’epoca. Dallapiccola fece scalpore nello scoprire che nella scena del Don Giovanni c’è la serie dodecafonica consapevolmente usata come tale da Mozart. Mozart aveva un problema da risolvere molto banale, ma molto importante drammaturgicamente, cioè tre baritoni sulla scena dai caratteri opposti: Don Giovanni, Leporello e il Commendatore; così si è trovato nelle condizioni di inventare un linguaggio nuovo facendo comparire per la prima volta tutte le 12 note, usate non nella linea melodica del cantante, ma nell’armonia, nella base armonica. A noi interessa poco sapere se avesse usato consapevolmente la serie dodecafonica, di fatto però si sente! Questa scena ha una terribilità che non è di maniera, non è d’epoca, è sconvolgente!